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06/01/2019 06:00:00

"Roma", il grande affresco di Alfonso Cuaròn

di Marco Bagarella -  Riapriamo ‘Stalker’ (che ha apportato alla sua ‘carne virtuale’ alcune modeste variazioni, che non è manco quest’anno ciò che voleva essere ‘da grande’, ma che comunque è ancora vivo e lotta insieme a voi!), con un invito al confronto.

Degnamente vincerà l’Oscar – come miglior film straniero –, l’ultima fatica del regista mexicano Alfonso Cuaròn? E, al netto dei lustrini e dei podi, si può considerare opera da ricordare negli anni? Infine, ma non per ultimo, cosa ha partorito Cuaròn partendo da un’idea di ‘amarcord’ personalissimo; un film-esegesi, un panottico di cose private frullate in salsina storica, una celata auto-glorificazione? Un bicromatico ‘gender style’ che propone mille, ed ottiene solo cento?

Cuaròn è, in prospettiva, una biforcazione del cinema mexicano contemporaneo. È un autore da tenerselo stretto e coccolato, per un doppio valido motivo. Innanzitutto è caso raro in cui una ‘visione’ mexicana, non s’imbriglia in quel facile sistema di produzioni simmetriche (da un lato, le centinaia di opere che narrano del narcotraffico e della lotta alla produzione e smercio della droga; dall’altro, un cinema sempre più indirizzato ai festival in giro per il mondo, con appiccicato su il bollino di autorialità bella e buona), che regola oggi tutto ciò che viene da quel paese martoriato e meraviglioso.

Ma è anche un abile innovatore narrativo, una mente artigiana (o, se volete, una mano visionaria), che riconduce ogni sua singola sinapsi di cinema ad una continuità di senso, allo stesso tempo sazia di stile ma anche affamata di scarti che dialogano con il pubblico.

Astrazioni (o distrazioni) che obbligano chi guarda quelle sue certe storie ad inventarsi una distanza immaginifica. A recuperare uno spazio indipendente di attesa, di stupore, di problematico dissenso. Di noia armonica, nel peggiore dei casi. Prendiamo in esame la sua filmografia (non certo nutrita, ma sicuramente stuzzicante);  essa ci pare filare via veloce lungo una direttrice chiara di ‘spostamento’ ed ‘assoluzione’ di quel male visibile della nostra realtà, che tutto domina e sgomina. La paura.

Da “Y tu mamá tambien” (in cui il viaggio iniziatico dei due giovani, si confronta con la fine esistenziale della protagonista), a “I figli degli uomini” (un film più realista della realtà stessa, così potentemente classico e percorso da squarci inquietanti), da “Gravity” (un blockbuster trasformato in oscuro canto del vuoto; vuoto di atmosfera, di orientamento, di figure affettive, di paesaggi antropizzati, di certezze tecnologiche), fino a quest’ultimo “Roma”, la cifra che portiamo fuori è quella di una minaccia vinta, o quanto meno affrontata sconfiggendo il senso di umiliazione.

Un regista che usa sempre metafore compiute, che – a dirla tutta – non è poca cosa oggigiorno. Prendiamo il tema dell’acqua. Cuaròn lo introduce nelle sue opere o come spunto fondamentale dell’intreccio (il mare ‘sessuale’ del primo film; qui in “Roma” un oceano nervoso che quasi ingoia i due ragazzini, e che così facendo svolge la storia sul suo lato più umano e sofferto), o come soluzione salvifica dell’azione cinematografica (la barca che preserva Clive Owen e la bambina; la superficie liquida che permette a Sandra Bullock di atterrare senza ulteriori patemi), elaborando per tale motivo un sistema di interpolazioni davvero stimolante.

Ma è sulla scelta narrativa di questo film e sulla sua virtuosistica grana di ripresa, che consiglio di puntare il vostro fiuto cinefilo. Innanzitutto la scelta del regista di affabulare celando buona parte della realtà del racconto; se egli ha voluto ripristinare alcuni ricordi d’infanzia (perché la famiglia, prima dissestata dalla fuga del padre e poi allargata agli affetti verso la tata Cleo, è proprio la sua), lo ha fatto cucendo una sceneggiatura che non mette in primo piano i Cuaròn ma il punto di vista, che appare spesso ‘astratto’, di una donna india che si prende cura della prole e che segue i faticosi e ciclici lavori di una grande casa borghese. Se questa scelta narrativa toglie al film molta emozione, lo vivifica in alcuni passaggi (l’abbandono nella sala cinematografica, il tentativo di rianimare la bambina appena nata, la carrellata del salvataggio in mare), che risultano perfettamente rinquadrati nell’economia generale del montaggio. Anche la scelta fotografica, un sapido bianco e nero – mai troppo luminoso, mai visivamente cupo –, fa comprendere subito il piacere di Cuaròn quando tenta, con successo, di superare il genere che gli si impone. Sembra accorgersi a tratti, da alcuni primi piani su oggetti o sull’irrompere improvviso di scelte dinamiche, di come si sia voluto fondere il tragico della vicenda storica (le sanguinose repressioni dei primi anni ’70, lo sbandamento di una società che resta in bilico tra democrazia artefatta e regime silente), con il grottesco delle beghe private (la merda del cane, il salone spogliato dai mobili); un modo riuscito per mischiare fantasia, memoria e crudeltà.

In poche parole, “Roma” è un’opera nella quale Cuaròn ricerca il superamento di molti codici espressivi e, con la pignolerìa di un autore che ha oramai fatto suo un alfabeto per immagini, tenta il suo primo ‘dramma gaio’. Qualcuno lo ha avvicinato a certo cinema inarrivabile di Jean Renoir. Che, appunto, rimane inarrivabile; ma “Roma” è comunque un grande affresco e vale la vostra visione ed il vostro pieno apprezzamento.