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20/01/2019 06:00:00

All'armi, siam pauperisti!

 Da qualche tempo ronza sui giornali e nei dibattiti televisivi il termine “pauperismo”. In particolare, i cinquestelle vengono spesso accusati dai loro avversari politici (vedi Berlusconi, tanto per non fare nomi) di essere dei pauperisti, a causa del loro accanimento contro gli stipendi dei politici e contro le pensioni d'oro. Ora, io qui non voglio entrare nel merito tecnico di una questione che, del resto, viene debitamente (e stucchevolmente) seguita ogni giorno dai giornalisti che si occupano delle vicende governative. Mi preme solo rispondere a una domanda essenziale: che cos'è veramente il pauperismo? Questa domanda però mi obbliga a compiere un rapido volo attraverso due millenni e mezzo di storia, per chiarire almeno un po' il senso che i concetti di “ricchezza” e “povertà” hanno assunto via via nella nostra cultura occidentale.

Nel mondo classico, filosofi e letterati – da Aristotele a Porfirio, da Epicuro a Seneca e a Orazio – avevano concordemente elaborato una teoria molto semplice al riguardo. Essi identificavano la vera ricchezza con la “sufficienza”, ossia con il possesso di quanto può bastare per condurre una vita dignitosa e serena. L'etica della moderazione e del “giusto mezzo”, che essi sostenevano, esaltava dunque le virtù della sobrietà e della temperanza, dell'essere felici con poco, e condannava aspramente l'avidità e l'accumulo smodato dei beni materiali. L'ideale di questi pensatori, in termini puramente economici, era quella che essi definivano “ricchezza naturale” (physeos ploutos in greco), ossia la ricchezza che non travalica, appunto, i bisogni essenziali di una vita in armonia con la natura. Di conseguenza, si potevano definire poveri solo due tipi di individui: o quelli che non disponevano del minimo necessario per vivere, oppure quelli che, pur possedendo beni anche abbondanti, non erano mai soddisfatti di ciò che avevano.

Ma nel frattempo si fece strada in Palestina ai tempi degli Esseni, per poi esplodere nel mondo con la predicazione di Gesù di Nazareth, una nuova teoria assai più radicale. Come ben sappiamo, Gesù non fece distinzione tra ricchezza smodata e ricchezza naturale, tra avidità e sobrietà. Per lui contava solo il distacco totale dai beni materiali. L'unica vera ricchezza, per il Nazareno, era quella spirituale, quella che si conquistava dedicandosi a Dio. I beni della terra, per Gesù, erano solo illusioni diaboliche e non potevano chiamarsi vere ricchezze. In seguito, Paolo di Tarso mitigò la dottrina radicale del Maestro, sia riappellandosi alla condanna classica dell'avidità come “radice di tutti i mali”, sia affermando che “tutto è puro per i puri” (omnia munda mundis).

Per circa mille anni il Cristianesimo si mantenne in equilibrio sul crinale di quella non lieve ambivalenza. (Assai diverso fu l'atteggiamento dell'Islàm, sicuramente più tollerante nei riguardi delle ricchezze e dei piaceri materiali, e dunque vicinissimo all'etica “liberale” della classicità pagana). Ma dopo l'anno Mille, il lento rifiorire economico e culturale dell'Europa provocò due fenomeni di enorme importanza: da un lato il rinascere della cultura e degli ideali del mondo greco-romano (compresa l'antica etica del giusto mezzo e della sobria ricchezza naturale), dall'altro il prodursi di un conflitto violento tra le due anime del Cristianesimo, quella più evangelica e radicale, e quella disposta al compromesso col mondo... e perfino con i tassi d'interesse sui prestiti di denaro! E fu proprio allora, in quei secoli finali dell'età medievale, che cominciò ad aggirarsi per l'Europa lo spettro virulento del pauperismo. Cristiani estremisti e movimenti ereticali esaltarono la santa povertà e contestarono la vita corrotta dell'alto clero. Fu un'autentica guerra, che solo con Francesco d'Assisi e col sorgere degli Ordini mendicanti poté in qualche modo attenuarsi.

Ma il conflitto di fondo non si placò mai. Durò pressoché invariato fino alla fine del XIX secolo, quando lo sviluppo travolgente dell'economia capitalista sostituì brutalmente alle varie anime cristiane e all'etica classica del giusto mezzo la nuova etica dell'eccesso, la glorificazione dell'avidità sfrenata e dell'accumulo illimitato di denaro e di beni materiali: insomma, il via libera al delirio collettivo che oggi produce i suoi risultati più estremi consegnando nelle mani di pochissimi individui la maggior parte delle ricchezze mondiali. L'impero assoluto del Dio Denaro.

Perciò, quando sentiamo sproloquiare di pauperismo in riferimento alla politica dei cinquestelle, che altro possiamo fare se non metterci a ridere a crepapelle? Togliere qualche spicciolo dalle tasche di deputati e pensionati, mentre i super-paperoni ultramiliardari continuano ad accumulare capitali megagalattici e a nasconderli nei paradisi fiscali... sarebbe questa una crociata “pauperista”? Ma ci facciano il piacere, direbbe Totò! Tutto è una ridicola farsa in ciò che sta accadendo oggi in Italia. Avanti popolo, alla riscossa, dei pensionati d'oro vogliam le ossa!

 

Sélinos