Oggi solo il 50% circa del pesce trattato dall'industria conserviera, finisce nel nostro piatto. Il restante 50%, considerato scarto, non viene infatti lavorato. Molte specie pescate, inoltre, vengono rigettate in mare o trattate come rifiuto in quanto il loro valore commerciale è basso o quasi nullo. E da quest'anno dopo una serie infinita di rinvii, l'Unione Europea impone che bisogna riportare sulla terra ferma gli scarti di pesce, per evitare una vera catastrofe.
Il rilancio del sistema ittico regionale necessita, secondo Pernice, di una vera e propria rivoluzione silenziosa attraverso lo sviluppo delle buone prassi dell'economia circolare nell'ambito del modello di Crescita Blu. Lo pensa il responsabile dell'Osservatorio della pesca del Mediterraneo della regione siciliana (braccio scientifico del Distretto della pesca), ingegnere Giuseppe Pernice.
Una ricchezza che si dilapida. Vivi o morti, i pesci sono rigettati in mare quando vengono catturati accidentalmente poiché sono di dimensioni troppo ridotte per poter essere commercializzati, o se le catture eccedono il contingente annuale consentito ai pescatori. Occorre una nuova strategia culturale del mondo della pesca perché ciò non avvenga. «I rigetti in mare di alcune qualità di pesci devono essere necessariamente limitati - afferma Pernice -. Ma come fare? «Occorre - spiega - una nuova strategia che preveda la necessità di limitare i rigetti in mare attraverso la valorizzazione di risorse marine non adeguatamente utilizzate: l'uso degli scarti della pesca in altri processi produttivi, ad esempio l'acquacoltura; la lotta contro gli sprechi alimentari; la rivalutazione del cosiddetto “pesce povero”, l'utilizzo di pescherecci da rottamare quali sedi per la formazione professionale e come luoghi di fruizione turistica e culturale» .