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05/04/2019 06:00:00

Ascesa e caduta di un capo popolo

di Marcello Benfante -

Una nuova edizione de “Il capo popolo” ad opera dell’editore Il Palindromo, con una bella introduzione di Goffredo Fofi, ci consente di tornare sulla figura esemplare di Nino Savarese (Enna 1882 – Roma 1945), scrittore di rara grazia stilistica e di non meno intensa pietas.

Della trilogia composta da “Rossomanno” (1935) , “I fatti di Petra” (1937) e “Il capo popolo” (1940), quest’ultimo potrebbe sembrare, a prima vista, il romanzo più storico, laddove gli altri sembrerebbero piuttosto insistere su un piano metastorico, il primo, e mitopoietico, il secondo.

Si tratta tuttavia di una sensazione epidermica e in ultima analisi fallace. E non solo per certe probabili inesattezze nella ricostruzione della biografia del “Masaniello siciliano” o per certe omissioni, forse necessarie allo sviluppo romanzesco, ma soprattutto per una sfiducia filosofica nella reale pregnanza dell’agire umano.

Fin dalle prime pagine, “Il capo popolo” si presenta subito come una narrazione per un verso fiabesca e per un altro ricondotta al primato della Natura sulla Storia.

Brevemente si ricostruisce l’alternanza di straordinarie precipitazioni e poi d’inesorabile siccità nel biennio 1646-47. All’origine dei fatti che costituiscono la trama del romanzo c’è dunque un anomalo andamento meteorologico.

Nel 1646 si verificò infatti “una tale abbondanza di pioggia in tutta la Sicilia che le sementi infradiciarono nei solchi”. L’anno appresso invece “si chiusero le cateratte del cielo, e non cadde più goccia d’acqua sulle nostre terre”.

Come sempre in Savarese, le premesse degli eventi storici affondano (letteralmente) le loro radici nella terra e sono conseguenza di un processo naturale.

La rivolta dell’uomo è pertanto la necessaria conclusione di una rivolta iniziata dalla natura stessa, ovvero di una “pazzia della natura” che ha sovvertito le proprie leggi per una sorta di fatale incantesimo.

Le sommosse che devastano l’intera Sicilia sono quindi la risposta meccanica, a livello storico, di un misterioso scompenso ecologico che sovrasta la storia stessa e si colloca in suo substrato biologico.

Ma tale fondamento geologico si contamina pure di elementi ancora più profondi che disvelano una sorta di inquietante e perverso progetto metafisico:

 

“Se si fosse potuto guardare dall’alto di un monte, si sarebbero viste sparse, dall’uno all’altro mare, le fiammelle di quegli incendi, come se uno spirito infernale corresse di contrada in contrada ad appiccare il fuoco, e subito dopo corresse pure a spegnerlo”.

 

Il ruolo dell’uomo, sia come individuo che come massa, risulta pertanto costretto e sottomesso dalle forze preponderanti della natura sovvertita, da un lato, e dallo sfrenato sprigionarsi di principi ultramondani che si manifestano, anche in forma premonitoria, come forze del destino.

In questa doppia cornice procede tuttavia la narrazione di Savarese coll’andamento regolare di una precisa cronaca dei fatti dove ogni effetto è riconducibile a una propria causa in una ferrea catena consequenziale.

La siccità provoca la carestia. La popolazione affamata insorge contro le manovre di aggiotaggio e le speculazioni sul grano. A Palermo la rivolta sembra avere inizialmente la meglio sotto la guida di Nino La Pelosa, “un feroce malandrino di campagna appena uscito dal carcere”. La contromossa del Viceré, il Marchese di Los Velez, è un’ordinanza che calmiera il prezzo del pane e abolisce le gabelle dei generi alimentari.

La Palermo rivoluzionaria si trasforma così in città dell’abbondanza a buon mercato. In breve una gran massa di persone (oltre diecimila) vi si riversa dai territori della provincia devastati dalla carestia.

L’ordine logico con cui Savarese espone e spiega i fatti urta con l’irrazionalità sia delle masse che del potere: spopolando le campagne, prima o poi ogni riserva alimentare dovrà necessariamente finire e il deficit dell’erario diverrà insostenibile.

Ma al momento la fame non sente ragioni. Né le sentono i detentori di un potere arrogante e dissoluto.

Da Polizzi giunge a Palermo, a piedi, un piccolo nucleo familiare composto dalla vedova Mariangela D’Alesi, suo fratello Rocco e la nipote Lia. La loro meta è il quartiere della Conceria dove risiedono i figli di Mariangela: Francesco, usciere al Banco della città, e Giuseppe, mastro tira oro.

Siamo così nel cuore di Palermo e nel cuore del romanzo storico. Giuseppe, a questo punto del racconto, è una sorta di sosia letterario minore del Renzo manzoniano. Sospettato dagli algozziri per certe sue malaccorte parole, è fuggito su un battello a Napoli.

Nella capitale partenopea ha da poco trionfato la rivoluzione guidata dal “Generalissimo” Masaniello, il pescivendolo Tommaso Aniello, che gode di un seguito popolare vastissimo ed entusiasta, ma non manca di nemici per una certa sua ferocia capricciosa, che fa sussurrare la gente di una sua improvvisa pazzia o di un delirio di ambizione. Di un “oscuro male” in cui traspare “un destino terribile”.

Tutto l’episodio napoletano nel racconto di Savarese è pervaso da una specie di luce spettrale e onirica. Ha l’andamento, ora contratto e ora dilatato, di un sogno profetico. Giuseppe, in procinto di lasciare Napoli, apprende della morte di Masaniello nel corso di una congiura e, “con la febbre addosso”, ne cerca il corpo alla Marina, lungo la spiaggia.

Infine lo trova, abbondonato sulla sabbia. La visione desolata e orrenda che ne ha è una prefigurazione del suo destino gemello: “le vesti a brandelli, le membra scomposte, il capo staccato dal corpo, sembrano giunti fin là, buttati dalla raffica che si era abbattuta sulla città, della quale si udiva il mugghio ed il cupo fragore”.

Masaniello è un massacrato relitto della storia, che il mare, nel suo eterno sommovimento, sembra confortare e insieme ammonire, “e dirgli che tutti gli uomini devono morire, che tutte le cose vanno e vengono anch’esse come le onde”.

Tra ricordo e fantasticheria, tra Palermo e Napoli, tra terrore e speranza, D’Alesi intuisce che il corpo mutilato e straziato di Masaniello è un avvertimento per lui, per gli arditi pensieri che ora gli sfiorano la mente.

Ma s’illude che sarà sufficiente una maggiore accortezza a evitare il martirio e la sconfitta. Che basterà un’audacia bilanciata dalla prudenza, un’intatta coscienza e un’incondizionata solidarietà alla sorte del popolo, una chiusura alle false lusinghe dei nobili e degli spagnoli. “Con l’aiuto di Dio e con la moderazione” sarà possibile realizzare un giusto governo per tutti ed esorcizzare il demone dell’ambizione.

Giuseppe D’Alesi aspira insomma a un’utopica e ossimorica quadratura del cerchio: una rivoluzione moderata in cui l’incubo perturbante di Masaniello, per il quale avverte “un doloroso senso di vergogna e di amoroso compatimento insieme”, si trasformi in un sogno fraterno di palingenesi e conciliazione generale.

E non sa che il gran mare del popolo lo sommergerà ciecamente e che il potere infido degli aristocratici gli staccherà la testa dal collo, come quella di Masaniello, e la esporrà come un macabro e intimidatorio trofeo.

Il ritorno a Palermo è avvertito da Giuseppe D’Alesi con un oneroso senso di responsabilità nel confronti della sua gente. L’esperienza napoletana opera nella sua coscienza come un’ossessione. È un rovello che lo accompagna in ogni momento, nei suoi gesti quotidiani, nel suo stesso lavoro di battiloro:

 

“E sembrava che i suoi colpi di martello avessero ora un suono diverso, un ritmo che non avevano mai avuto, tanto che i suoi compagni si voltavano verso di lui e lo guardavano”.

 

Una nuova rabbia si è ora impadronita della sua maestria artigianale, un tempo paziente e metodica, un’urgenza di porre rimedio alla sofferenza del popolo che è suggerita per contrasto dall’uso stesso dell’oro, simbolo lucente del potere e della ricchezza.

Ma al tempo stesso nei suoi pensieri è insorta “una strana ripugnanza” per la figura e l’opera di Masaniello, per la sua ferocia e per lo scempio che aveva subito ad opera dei suoi nemici.

Insieme a un gruppo di agitatori, appartenenti a varie corporazioni e mestieri, comincia a riunirsi in un’osteria per progettare una sollevazione popolare. Si sceglie come data il giorno dell’Assunzione. Il capo popolo sarà invece stabilito per sorteggio.

L’alea irrompe così nella vicenda, dapprima sembrando escludere il D’Alesi da un ruolo di protagonista. D’ora in poi ogni evento sfugge dal controllo degli uomini e si presenta come il responso di un destino. Anzi, come una sua trappola mortale.

Il romanzo storico assume quindi i tratti di una ballata fatale. Un equivoco sulle effettive intenzioni del Viceré fa scoppiare la rivolta in anticipo.

In assenza del capo sorteggiato, Giuseppe Errante, Console dei conciatori, che la folla crede prigioniero del Viceré, D’Alesi si pone alla testa del tumulto. E allorché gli viene fornito un cavallo bianco come segno visibile del comando, la sua funzione di Capo popolo, di guida carismatica della “feccia del mondo”, viene formalizzata a livello iconico.

Quasi suo malgrado, ora D’Alesi è trascinato alla guida della rivoluzione dalla forza stessa dei simboli (il cavallo bianco, l’effigie della Madonna e l’aquila regale) con i quali è stato ammantato.

Il caso (o il suo doppio, il destino) presiede a questa investitura. E quasi ad opera di un incantesimo “le temibili difese” del Potere, i “pesanti cancelli, le grosse mura” che sembravano invincibili, cedono d’un tratto. Il popolo ha già vinto prima ancora che ci sia stata vera battaglia, e ora stupefatto contempla il suo trionfo.

“Che cosa era mai accaduto? Si guardavano intorno contenti, ma smarriti, e guardavano la città che sembrava loro mutata nell’aria, nella luce, nel diverso colore che avevano preso le cose, nel diverso aspetto della gente”.

La metamorfosi è stata troppo repentina e radicale per essere vera. Si tratta soltanto di un’illusione ferale, nella prima fase della tragica trappola in cui cadranno Giuseppe D’Alesi e la città tutta.

Nel momento stesso della sua apoteosi, Palermo è già perduta, sottomessa a un inesorabile verdetto.

Ma l’aura di fatalismo suggerita dal ritmo della narrazione non esclude la consapevolezza di Savarese (scrittore non solo formalmente impeccabile, ma anche lucidamente analitico) delle fondamentali ragioni sociali ed economiche che rendono estremamente labile il successo rivoluzionario. I nobili si rintanano nelle loro possenti magioni, attorniati dai loro numerosi domestici e da quella parte di popolo, ancora più vasta, che vive al loro servizio. Gli stessi borghesi sono alleati naturali dell’aristocrazia, da cui traggono i mezzi della loro agiatezza e da cui dipendono totalmente. È un blocco di interessi saldissimo a cui aggiunge il concorso e il consenso della Chiesa e ovviamente (seppure non senza contraddizioni con le pretese locali) la supremazia dei dominatori spagnoli.

Giuseppe D’Alesi, che pure non manca di una certa sapienza politica, si illude però di poter venire a patti con questo tenace intreccio di interessi soltanto evitando lo scatenarsi incontrollato della violenza, dichiarando fedeltà al Re di Spagna e mostrando una sincera disponibilità al mantenimento dello status quo politico, seppure in un’ottica di moderato accrescimento dei diritti e delle prerogative popolari.

Alla facile vittoria della rivoluzione, o per meglio dire della cieca rivolta, subentra un altrettanto facile, e perciò ingannevole, ripiegamento riformista, anche piuttosto ambiguo nelle sue forme esteriori e in carte sue ingenue concessioni. Ovvero un catastrofico abbaglio riguardo alla reale possibilità di stabilire compromessi con un potere momentaneamente sconfitto, ma non certo definitivamente debellato.

Se Savarese ha chiarissimi gli aspetti strutturali del conflitto tra le classi in campo, non per questo la sua visione dei fatti può essere ricondotta del tutto nell’ambito di un’interpretazione prettamente storica.

Cioè della storia intesa come razionale conseguenza dall’agire umano e dei suoi presupposti sociali.

Riemerge anzi, nel cuore stesso della sua attenta ricostruzione dei fattori economici e politici degli eventi, una concezione che potremmo definire biologica o fisiologica.

La “rivolta” altro non è che uno stato patologico, una sorta di stato di alterazione della salute, di parossismo febbrile: “ogni rivolta è una malattia di una società” che necessita cure tempestive ed efficaci.

Non c’è dubbio che Savarese parteggi per la causa del popolo, di cui sono descritte le sofferenze e i bisogni, insieme alla brutale mortificazione dei diritti e della dignità dei poveri da parte di un potere spietato.

Non di meno la rivolta, ancorché del tutto giustificabile sul piano delle rivendicazioni, gli sembra un’azione scomposta e contro natura, uno stato di morbosa eccitazione collettiva che ineluttabilmente si rivela autodistruttivo per il popolo stesso.

“L’uomo allo stato di natura, in possesso della sua salute, guerreggia, non si rivolta: la rivolta è l’effetto di uno stravizio sociale, ed in genere ne è sempre colpito il popolo, perché esso è l’organo più strapazzato del corpo della società”.

Se la rivolta è una sorta d’infiammazione e di sconvolgimento superficiale, la folla che si accalca per strada, “eccitata e riottosa”, è una belva da tenere al guinzaglio affinché non si avventi contro falsi obiettivi sulla base di semplici voci prive di fondamento. La distanza tra la rivolta e il saccheggio e il massacro è talora minima.

Ma è senza disprezzo classista che Savarese annota questa trattenuta ferocia della massa. Anzi, di questa folla anonima, umiliata e triste, coglie l’abitudine a soffrire e tacere, a rimanere attonita e come stravolta da un antico malessere, a divagare in modo frammentario e ripetitivo, quando infine riesce a prendere la parola.

La rivolta è una malattia perché il popolo stesso è malato, di miseria, d’ignoranza, di disperazione. Di uno stato totale di privazione.

A metterne su carta, nero su bianco, le confuse e velleitarie aspirazioni è, non a caso, un poeta: segno chiarissimo che il memoriale, ossia la piattaforma politica, sarà un epico guazzabuglio di giuste rivendicazioni e stramberie, obiettivi ragionevoli e progetti irrealizzabili.

La rivolta riesce a stento a essere tattica. Mai strategica. Non riesce cioè ad assurgere allo stato naturale di “guerra”, alla rivoluzione cosmica che oppone gli elementi contrari nell’eterna lotta per l’esistenza.

Giuseppe D’alesi è un capo popolo istintivo, la cui breve e marginale esperienza napoletana è servita soltanto a scongiurare i più sconci e ottusi errori di Masaniello, ma non certo a individuare una più consapevole strategia rivoluzionaria.

Né Savarese si sforza di delinearne contenuti e metodologie, ché anzi ad ogni grande svolta del suo racconto tende piuttosto e evadere dal piano storico, ora sconfinando in quello naturale, fatto di ctonie forze telluriche, e ora invece in quello misterico e celeste, ancora più insondabile.

Quando ancora la tragedia non si è consumata, sebbene se ne stiano segretamente preparando i presupposti, uno strano vecchio chiede udienza al Capitano D’Alesi. Reca un avvertimento ricevuto in sogno, ed egli è un uomo i cui sogni “non sbagliano”. Il consiglio è quello di barricarsi “nel Castello a Mare bene armato e di lì dettare la legge del popolo, anche contro il Viceré, anche contro il Re di Spagna”, avvalendosi dell’esperienza di un uomo saggio come Francesco Baroni, ancora imprigionato nelle carceri dell’Inquisizione.

È la mossa dell’arrocco nella difficile partita a scacchi contro i poteri forti. Ma D’Alesi purtroppo è tutt’altro che un abile scacchista. Sottovaluta infatti il suggerimento (e sarà invece il Viceré a insediarsi nel Castello a Mare per garantirsi la sicurezza e il controllo della città). Gli manca soprattutto una visione prospettica che per il vecchio sognatore è un “grande regno della Sicilia non più schiavo degli stranieri”. Gli manca cioè il senso profondo di una vera rivoluzione politica.

E d’altronde questo è limite insormontabile del popolo tutto, che è privo di coscienza politica ed è perciò estremamente “volubile”, nonché vittima delle sue pulsioni più oscure, della nefasta voluttà del sangue, di una mentalità elementare che lo porta a dividersi in base a immotivate gelosie, a supporre sempre che si stia ordendo una congiura ai suoi danni, a lasciarsi convincere dalle più vaghe dicerie di tradimento.

È un popolo, questo che si rivolta ciecamente e s’illude d’avere vinto, che appare nelle pagine di Savarese in tutta la sua irredimibile disgregazione, come “un liquido carico di sostanze diverse non ancora amalgamate” che, se agitate, “tutte si mescolano, si aggregano o si respingono, si fuggono per insita ripulsione o si cercano per innata attrazione”. È il caos di una “nuova alchimia” in cui ribolle un miscuglio di invidie, ambizioni, paure, vendette.

Nell’arco di appena sei giorni, la sorte, la malasorte, del Capo popolo è segnata. Un nemico oscuro lo segue come un’ombra. È il suo destino. Come un animale braccato dalla muta dei cani e dai loro padroni, D’Alesi, rimasto solo, cerca invano di fuggire alla fine turpe dei masanielli.

Si libera, ma troppo tardi, delle sontuose vesti che ha incautamente indossato e cerca riparo in una fogna. Poi rinuncia al vano e ignominioso progetto di sporcare la sua impresa in modo vile.

Caduto nelle mani degli inseguitori, inerme, lacero, imbrattato, si illude ancora di poter affrontare il giudizio di un tribunale, ma un nobile, Don Alessandro Platamone, lo decapita vigliaccamente dopo averlo ripetutamente ferito con la sua spada.

Del corpo di Giuseppe D’Alesi si fa osceno scempio e la sua testa mozzata sarà esposta in una finestra di Piazza Bologni. La madre, che in cuor suo ha sempre diffidato della fulminea scalata sociale, da battiloro a sindaco della città ribelle, del suo Giuseppe, si reca a contemplare sgomenta questo teatro dell’orrore verso il quale i palermitani distolgono gli occhi passando veloci.

Comincia così il suo calvario. Conoscerà la prigione, poi l’esilio, sia da Palermo che dalla natia Polizzi, da cui il destino, come un vento impetuoso, l’aveva strappata come una foglia dall’albero e poi agitata e sbattuta “nel turbine della città” per ricondurla infine nel luogo originario, e da qui riscacciarla con inesauribile violenza.

E mentre cresce e si diffonde nel popolo la leggenda eroica di un Giuseppe D’Alesi ancor vivo che prima o poi tornerà a guidare un’ennesima rivolta, sua madre trova infine una casa che l’accoglie come serva e qui si ripiega nel proprio dolore, unica “verità eterna” di una “lunga storia” fatta fatta di minuscoli ma ardenti granelli.

Savarese, dal resoconto a tratti manzoniano di un fatto storico, la rivolta palermitana del 1647, perviene in ultimo a una visione pessimistica e antistorica delle vicende umane, delle città e dei regni, priva finanche di una lungimirante Provvidenza, di cui non resta altro, nel travaglio infinito del mondo, che un eterno, inconsolabile e disperato dolore.

Nino Savarese, “Il capo popolo”, Il Palindromo, 2019, pagine 241, euro 13