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21/04/2019 06:00:00

"Gomito di Sicilia": un atto d'amore per questa nostra terra

 Gomito di Sicilia (Laterza) è il racconto che Giacomo Di Girolamo fa della nostra terra, la Sicilia occidentale. Soprattutto della provincia di Trapani e, in particolare di Marsala e dello Stagnone. Racconto di luoghi e quindi di persone. Noi insomma, noi che ci siamo nati, o un “noi” di chi non ci è nato, ma che in questo “gomito” può specchiarsi e vedere anche un po’ sé stesso.

Verità. Questo è un libro sulla verità e il disincanto. Quelle verità che possiamo vedere se solo apriamo gli occhi, se alziamo lo sguardo. Perché “si racconta con gli occhi”, scrive l’autore, per andare oltre la superficie, capire o quanto meno provarci… “mi ci romperò la testa”, l’espressione del Capitano Bellodi de “Il giorno della Civetta” di Sciascia, che l’autore fa sua; verità vuol dire chiamare le cose con il proprio nome, anche quando sono brutte, o quando il brutto è in noi.

Ad essere messi a nudo sono molti e arcinoti fenomeni: clientelismo, abusivismo, corruzione, criminalità… metafora della sporcizia ritratta ad ogni pie’ sospinto al motto di “Marsala (la Sicilia) bella fitusa”. Ma questo è il meno; il “più” è che a nudo sono tutti i cattivi sentimenti e le sordide condotte: vittimismo, inciviltà, falsità, egoismo… la responsabilità dello sporcare, “Marsalesi (Siciliani) belli fitusi” come un lettore di TP24 ha recentemente suggerito di “precisare”. Insomma, quella raffigurata dall’autore è una voragine di “corruzione etica ed estetica”; è il pane quotidiano della funzione di servizio che il suo giornalismo assolve in favore di un’opinione pubblica libera e democratica.

Responsabilità. Questo è un libro sulla responsabilità. L’essere fitusi, oltre che per i rifiuti che sparge, preoccupa perché simboleggia il nostro essere “cosa grigia”, in tutto e per tutto. Come su LinkedIn: due gradi di collegamento e i nostri atti si saldano con quelli del mafioso. Cronaca trita e ritrita, “scrigno” di desolante attualità: io cittadino-commerciante-imprenditore-elettore chiedo un favore (anche piccolo) a tizio, tizio – in cambio del mio voto – conquista una posizione dalla quale probabilmente mi farà quel favore, e di sicuro contribuirà agli interessi di Caio che è un mafioso, di persona-personalmente.

Risultato? In un’economia, in un’amministrazione pubblica, in una società in cui prevalgono queste dinamiche, la negazione del “merito” e della legalità ci confina ad una condizione di fragilissima cittadinanza. Regola aurea? “Cu havi li guai si li chianci”. E anche tizio, per quanto possa essere stato “favorito”, non farà altro che ingrossare la moltitudine dei “penultimi”, noi.

Noi, “imbottiti di notizie false”, noi che in questo Gomito di Sicilia ci illudiamo di non essere ultimi, solo grazie al fatto che abbiamo altri “ultimi” da insultare, respingere o attrarre, se si tratta di sfruttarli nei campi a 3 euro l’ora. O, ancora peggio, ultimi da ignorare.

E neanche le liturgie dell’antimafia, del riscatto, ci aiutano a scalare la classifica: anzi, sulle responsabilità individuali…. sì la tua, la mia… questa retorica alza una cortina fumogena, che ci inchioda lì. Penultimi. E se qualche giornalone pubblica l’annuale classifica sulla qualità della vita, che puntualmente ci relega in coda, allora è un complotto…. non si spiegherebbe altrimenti, visto che noi abbiamo le meraviglie dello Stagnone, le prelibatezze del cibo tipico, la mitezza di un clima quasi-sempre-primavera-estate.

Ma le verità sono altre: lo Stagnone mare non è, perché “non si fa nuotare, non rinfresca, ed è chiuso dalle isole che isole non sono…”; di cibo ci rimpinziamo quale riflesso della fama atavica che hanno vissuto i nostri progenitori. E il clima? Argomento di distrazione di massa, come altre belle storie…. come quella della “strada sotto il mare” costruita dai Fenici per collegare Mozia all’isola grande, magnifica immagine da cartolina. Vanagloriose esaltazioni, parentesi pseudo-culturali, tra un selfie ed un’apericena.

E non bastano neanche i tramonti dello Stagnone, celebrati da “ci dispiace per gli altri, ma noi viviamo in Paradiso”. In Paradiso si va per meriti, e per questi tramonti, di merito-responsabilità noi non ne abbiamo affatto.

Dolore. Questo è un libro di ferite, cicatrici, brutti ematomi quando va bene. Di dolore pubblico e dolore privato. Pubblico, per le vittime di questa terra, per lo spreco di risorse economiche, naturali, umane, per la perdita di memoria.

Dolore privato, di chi piange i propri guai e resta solo. Vale anche per l’autore, che non è fuggito come la sorella-cugina-compagna di scuola, o come le barche dello Stagnone che si erano stufate di restare e sciolta la corda che le legava al loro paletto, sono andate vie.

Lui invece è rimasto, attaccato al suo paletto, a vivere e a scrivere in questo Gomito di Sicilia. Una scelta che però è fonte di dolore, amarezza soprattutto per la pena che deve scontare: la solitudine. Perché “l’unica cosa che so fare”, il giornalista, lo scrittore, Di Girolamo la fa con pochi collaboratori, molti, moltissimi lettori, ma pochi pubblici sostenitori, e molti pubblici accusatori: lui è il boia, la sua penna è la mannaia, la gogna mediatica la pena che infligge in attesa dell’esecuzione. E così, ogni discussione nel merito delle cose, può essere saltata a piè pari, oppure essere portata in tribunale. Come i confetti Falqui, basta la parola: querela.

Dolore, amarezza, perché lui, Di Girolamo, è il predestinato, delle nostre deleghe di verità…. e più deleghe gli diamo, più giriamo il coltello nelle piaghe, le sue, di solitudine: a differenza dei tantissimi di questa generazione, “io sono rimasto, ma sono stanco” scrive.

Vitalità. Questo è un libro sull’essere vitale. Vitale è per lui capire. Ricercare la verità, spesso amarissima, non è il frutto di una personale ossessione o di una missione salvifica, bensì un’esigenza naturale, fisiologica, vitale, appunto. Per l’autore è come “respirare”: in parte un atto volontario, ma soprattutto, e assolutamente, un atto involontario, in quanto vitale. Vitale come il dolore, che se non fossi vivo non sentiresti.

Vitale come l’ironia alla quale l’autore non può fare a meno di ricorrere. Quando la narrazione svela via via le nostre miserie, l’ironia è la ciambella di salvataggio che ci lancia per restare a galla, scacciare la paura, ossigenare la mente; l’ironia eleva Gomito di Sicilia da saggio pseudo-sociologico ad avvincente affresco umano; da cahier de doléances a discorso doloroso sì, ma schietto e non privo di speranza, anzi, bramoso di futuro. E se anche il futuro non dovesse riservarci niente di meglio, naufragar ci è dolce in questo mare, agitato dall’ironia.

Di ironia, l’autore, è portatore felicissimo. Come un jazzista, quando immaginiamo dove la melodia-racconto sta andando a parare, ecco la sua via di fuga: ci spiazza, svisa, salta, una piroetta e oplà, atterra sulla nostra tragicomica umanità. In ironia si laurea con 110 e lode; evidente, ma non troppo, che nessuno gli sfugga, men che meno sé stesso, facendogli così guadagnare anche menzione d’onore e bacio in fronte, per l’autoironia.

Identità. Questo è un libro che parla di identità e della narrazione che ne facciamo (…in Sicilia abbiamo pure un “Assessorato all’Identità”. Ebbene, confutandone la vulgata, l’autore infine rivela la nostra non-identità.

Siamo infatti il frutto di “un lento rincorrersi di epiloghi”, scrive l’autore: Marsala nasce dalla fine di Mozia, lo Stagnone è famoso per i suoi tramonti, alias romantici epiloghi; così come fasi storiche, più o meno prossime all’epilogo, sono quelle impersonate dai Leopoldo di Borbone, Garibaldi, Vittorio Emanuele III, ricordati dall’autore nei loro passaggi lilibetani… tutti “accolti dall’entusiasmo della paura” che cela “la viltà e l’odio che si mascherano di festa e agitano le bandiere a salutare i nuovi padroni”.

Anche la nostra superlativa ospitalità verso i forestieri – “per i ricchi sì…. i poveri a casa loro” – spesso invadente e spropositata, è espressione dell’omaggio che si deve ad una razza che riconosciamo superiore. Schiere di vincenti che vogliamo ammaliare, nella speranza non detta, che ci portino via da qui, insieme a loro.

Epiloghi che si rincorrono ma che a volte neanche completano il loro ciclo, regalandoci le nostre famose incompiute, architettoniche quanto esistenziali. Come incompiute sono molte frasi che l’autore utilizza per sottolineare il non-detto… “immagina che.”

Manca sempre qualcosa. La nostra è una terra senza boss… dove sei Matteo? Senza memoria. Una città senza mare (lo Stagnone mare non è), senza monumento perché quello ai Mille di Garibaldi non ne ha le dimensioni né la funzione memoriale. Marsala ormai è senza un mercato per quello che era il suo prodotto simbolo, il vino, è senza una generazione i 20-30-40enni andati via per studio-lavoro, è senza normalità. Una grammatica del senza che porta l’autore a scrivere che allora “Marsala non è”. E noi non siamo, perché “viviamo sotto costa, rimandando le cose importanti”. A forza di cavare sale dal mare, noi stessi siamo diventati “creature di sale”: cristallizzati nella rassegnazione, “sappiamo la direzione, ma non facciamo un passo.”

Amore. Questo libro è un atto di amore. Amore per questo Gomito di Sicilia e per la sua gente, nonostante tutto. Amore per le persone care che l’autore fa coincidere con la sorella, destinataria di questo diario di bordo, tra i flutti della vita. Una scelta sentimentale, prima ancora che immaginifico escamotage narrativo.

Travolgente com’è, l’amore va però dosato: “dobbiamo amare meno questa terra, dobbiamo amarla meglio…. vedere, studiare, analizzare, immaginare”.

“Al centro, ad ovest che più ovest non si può”, soffia tanto vento. Che spettina i pensieri, “impedisce il ragionamento” afferma l’autore. Ma forse “la risposta è nel vento” che diventa tensione, ricerca, speranza, voglia di futuro.

Ecco, Gomito di Sicilia è un vero atto di amore, nel senso che esprime fiducia nella possibilità che ciascuno di noi ha di immaginare un orizzonte diverso, migliore, per questa nostra terra. Sciogliere il sale che abbiamo addosso, e muovere un passo, e un altro ancora…. è possibile: “c’è bellezza per tutti”.

Gomito di Sicilia è un atto di amore per l’altro, gli altri: per chi è rimasto (per necessità, per comodità), ed anche per chi si è perso (ci sono pure loro). Empatia per gli uni, per gli altri e per le generazioni che tra restare e fuggire hanno scelto la seconda: per la sorella andata via, il parente andato via, il compagno di scuola medico, magistrato, andati via. Per tutti loro una promessa: “io ti penso… se hai bisogno e mi cerchi, ecco io resto qua. Così mi trovi facile.” E per noi una certezza, ti troviamo sempre.

Baldo Palermo