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16/05/2019 06:00:00

Marsala, al via 38° Parallelo. Calabrò: "Impresa e lavoro, non c'è futuro senza Europa"

 di Marco Marino

 

Cominciano con una conversazione con Antonio Calabrò le nostre anteprime del festival 38° Parallelo – Tra libri e cantine, che da oggi fino a domenica proporrà importanti occasioni di dialogo con alcune delle personalità più importanti del mondo culturale italiano.

 

È “rammendi, tra visioni e paesaggi” il tema che quest'anno legherà gli incontri in accese discussioni su cosa sia il tessuto sociale e come sia necessario recuperarlo per progettare un futuro in cui abitare nuove utopie; i valori della politica su cui ritornare a credere perché a meno di due settimane dalle elezioni europee il buon senso ritorni a prevalere sul senso comune; la fondamentale capacità che offre la poesia di risanare la visione del nostro restare qui, in questa terra dove il paesaggio e gli uomini che lo abitano sono la stessa; infine il grande tema degli ultimi anni: è possibile vivere di cultura? Attorno alla cultura di un territorio, alla sua arte, alla sua natura, è possibile creare un'economia felice?

 

Saranno questi i temi che verranno affrontati in questi quattro giorni di confronto. Ricordiamo velocemente il calendario degli appuntamenti:

 

Oggi alle 18.30, alle Cantine Pellegrino, Antonio Calabrò con Lorena Coluccia parlano di Impresa, lavoro, inclusione sociale.

 

Domani alle 18.30, alle Cantine Florio, Gianfranco Pasquino ci spiegherà cosa significa Filare, tessere e cucire politica.

 

Sabato alle 18,30 alle Cantine Bianchi, Valerio Magrelli si confronterà con Mario Inglese sui suoi versi, presentando uno libro ispirato a questi dal titolo Di mano in mano.

 

Domenica alle 10.30 al Museo Archeologico Lilibeo – Baglio Anselmi chiuderà la rassegna Paola Dubini assieme a Francesco Giambrone e Martina Ferracane. Il tema sarà: Con la cultura non si mangia? Falso!

 

Noi iniziamo a conoscere gli ospiti della rassegna a partire, come dicevamo, da Antonio Calabrò. Direttore della Fondazione Pirelli e vicepresidente di Assolombarda. Ha appena pubblicato per Egea Bocconi il suo ultimo lavoro, L'impresa riformista. Ne abbiamo molto discusso con lui.

 

Quando dobbiamo pensare a un'impresa che sia stata davvero riformista, che abbia unito industria e cultura, pensiamo d'istinto ad Adriano Olivetti. Quanto s'è allontanata l'impresa italiana dall'utopia di Ivrea? E quali sono le nuove utopie che deve sapere abitare l'impresa italiana per andare avanti?

 

Nella storia dell’industria italiana abbiamo avuto due momenti davvero elevati: il modello d’impresa di Adriano Olivetti, che ha segnato il boom economico, e la Pirelli, con Alberto e poi Leopoldo, con un’eredità ben raccolta, quasi trent’anni fa, da Marco Tronchetti Provera. Sono due vicende d’impresa concrete, al di là di alcune visioni utopistiche delle riflessioni olivettiane. Una cultura dell’impresa e del lavoro che ha tradotto in pratica le visioni sulla responsabilità sociale dell’imprenditore, passando dalla teoria ai fatti: Olivetti e Pirelli introdussero il welfare aziendale già prima della Seconda guerra mondiale e diedero vita a relazioni industriali innovative. In loro c’è la parte più nobile della imprenditoria italiana, a cui ancora oggi fare riferimento. Le imprese attente alla sostenibilità e alla qualità del lavoro e dello sviluppo sono molte, per fortuna, in quest’Italia che pretende di continuare a crescere, facendo leva appunto sull’industria.

 

C’è chi sostiene che questo approccio non sia più di moda, in tempi di ordoliberismo, di globalizzazione da turbocapitalismo,  di finanziarizzazione estrema dell’economia

 

La Grande Crisi vissuta di recente ci dice che occorre cambiare paradigma di produzione e consumo, cercando di riparare i guasti della finanzia rapace e dello sviluppo squilibrato. I motori dell’economia, appunto le imprese, devono ricostruire la propria legittimazione sociale ed economica. Per dirla con un libro di Colin Crouch, “Salviamo il capitalismo da se stesso”, occorre costruire una nuova fiducia nel fare impresa, creare valore e cioè profitto secondo un sistema di valori morali, sociali, civili. E’ la richiesta che viene da Papa Francesco, con i suoi appelli sull’economia giusta e solidale, ma è anche l’eredità di una lunga tradizione italiana. E di un economista meridionale del Settecento, Antonio Genovesi (coevo del padre dell’economia liberale, Adam Smith) che teorizzava un’economia civile. La lezione di Genovesi oggi viene ripresa da economisti brillanti come Stefano Zamagni, ma anche da industruali che puntano sulla leva della green economy,  investono e innovano, convinti che proprio la sostenibilità, ambientale e sociale, sia una funzione essenziale della competitività. Ecco di cosa si parla a proposito di Impresa Riformista.

 

Nell'ultimo anno la politica quanto s'è occupata d'impresa?

 

Poco e male, finanziando più le scelte assistenziali (reddito di cittadinanza, pensioni, taglio di tasse alle partite Iva con i fatturati più bassi) e non le politiche industriali e fiscali per favorire nuovo lavoro, ricerca, innovazione, formazione. Un grave errore che compromette la crescita economica e sociale. L’impresa, in tempi di crisi di qualità e valore della politica, si sta rivelando come un soggetto attivo, attento alle policy e cioè alle strategie, ai programmi di sviluppo sostenibile del Paese, al rilancio e alle riforme dell’Europa, alla diffusione della cultura del mercato e del merito. E non alle politics, le scelte di gestione, gli accordi politici di corto respiro. Un’impresa con un forte senso di responsabilità verso gli interessi generali dell’Italia. Altro che “prenditori”, come dice una propaganda anti-impresa di basso livello. Qui ci sono imprenditori coraggiosi, aperti, che creano lavoro e fanno crescere economia e società. 

 

Come definire il “riformismo” che dà il titolo al suo libro?

 

Il riformismo è un’attitudine paziente. Impone conoscenza profonda delle realtà da modificare, lungimiranza strategica e perseveranza nelle piccole scelte legate da un disegno conseguente, forza nell’accettare le battute d’arresto e creatività nel trovare nuove soluzioni. Non ha l’impeto eroico del giacobinismo, la passione rivoluzionaria della palingenesi, il trascinamento romantico del “cambiamo tutto”. Ma, proprio come la buona ricerca scientifica, procede per trials and errors, scoperte, ripensamenti, ricominciamenti. Il riformismo è il tempo lungo del cambiamento possibile. Ecco le due parole chiave: “cambiamento” e “possibile”. In quest’Italia nevrotica, incline alla retorica dei grandi annunci e alla pratica dei conservatorismi familisti e corporativi, sono proprio le imprese a interpretare, più e meglio di altri attori sociali, le spinte necessarie alle continue trasformazioni dei rapporti di produzione e di scambio. Le imprese industriali, soprattutto. Nasce proprio da questa consapevolezza, nutrita da una lunga osservazione delle realtà concrete del tessuto produttivo italiano e del profondo radicamento della migliore manifattura in territori carichi di storia e cultura ma anche di ambizioni innovative, l’idea di raccontare “l’impresa riformista” come soggetto dinamico di un movimento di tutto il sistema Paese verso migliori assetti di sviluppo economico e sociale. L’impresa è una leva essenziale di cambiamento e innovazione. E d’altronde è abbastanza evidente come proprio l’impresa sia, oltre che produttrice di ricchezza, anche il miglior ascensore sociale rimasto in questo paese, promuovendo le culture del mercato e del merito, premiando competenze e conoscenze, dando opportunità di integrazione e promozione sociale ed economica.

 

Nel libro si parla molto di manifattura e industria, come cardini dello sviluppo, contro le teorie della “decrescita infelice”

 

Manifattura di qualità, legata a servizi, università d’eccellenza, centri di ricerca, in territori ricchi di storia e “saper fare”. Con una forte attenzione per la cosiddetta “fabbrica bella” e cioè ben progettata, trasparente, sicura, inclusiva, sostenibile dal punto di vista ambientale e sociale per prodotti, sistemi di produzione, servizi, consumi. Ce ne sono già parecchie, in Italia, di imprese industriali con queste caratteristiche: luoghi in cui la sostenibilità da green economy è cardine essenziale della competitività (la Pirelli di Settimo Torinese, progettata da Renzo Piano, ne è esempio). Altre ne stanno crescendo. L’Italia industriale continua a vantare primati europei (siamo la seconda manifattura della Ue, dopo la Germania) in settori come la meccanica e la meccatronica, la gomma, l’automotive, la chimica e la farmaceutica, l’avionica, oltre che i tradizionali mondi del made in Italy, abbigliamento, arredamento e industria agro-alimentare. Ed è proprio l’industria di respiro europeo, aperta all’export e agli investimenti internazionali a fare da cardine di un sistema in cui manifattura e servizi, creatività, ricerca e “cultura politecnica” si integrano nelle nuove dimensioni della digital economy e di un’economia circolare e civile che consenta un migliore, più qualificato sviluppo.

Il libro insiste sul “nuovo triangolo industriale”, tra Lombardia, Veneto ed Emilia, lungo gli assi ovest-est e nord-sud, con la centralità di Milano metropoli innovativa e aperta. Un’originale area europea, caratterizzata dalla sinergia tra luoghi e flussi, spazi di produzione e ricerca e movimenti di persone, risorse, idee. Che deve attrarre, nello sviluppo dell’intero Paese, tutto il Mezzogiorno.

 

L'impresa italiana e l'Europa: nemiche? amiche? Potrebbe indicarci una parola da cui ripartire per rinsaldare la fiducia in un'Europa che si percepisce sempre più lontana dagli interessi del nostro Paese?

 

L’Europa, nonostante tutto, è la nostra realtà positiva, il nostro futuro. Sono necessarie scelte, nazionali ed europee, di politica economica e fiscale per fare crescere le imprese: favorire l’innovazione recuperando le misure per “Industria 4.0”, dare spazio a scelte di sostenibilità ambientale e sociale come cardine di competitività. Il problema è che le attuali scelte di politica economica e fiscale del governo Lega-M5S non vanno affatto in questa direzione. Servono, peraltro, anche politiche per infrastrutture efficienti. E per attrarre investimenti internazionali e ricostruire, archiviando la stagione del rancore, un clima di fiducia diffusa, per rimettere in movimento le energie delle imprese.

L’orizzonte di riferimento principale resta l’Europa, con una Ue da difendere, rilanciare e fare vivere con maggiori e migliori prospettive di integrazione. “L’impresa riformista” insiste molto su questi temi. Su un nuovo “piano Delors” per massicci investimenti in infrastrutture materiali e immateriali (un grande progetto di digitalizzazione) e in un rafforzamento del ruolo dell’industria europea. Su una politica comune sull’energia, sull’innovazione industriale, sugli scambi internazionali nel confronto con Usa e Cina. L’impresa vive in un mondo aperto e competitivo.