“L’atteggiamento di mio padre non procurava serenità e tranquillità in famiglia. Anzi, c’era sempre uno stato di tensione. Anche economicamente si viveva male e spesso si saltava il pasto. Il problema di base era che mio padre aveva il vizio di bere”.
E’ quanto ha affermato, in Tribunale, davanti al giudice monocratico Lorenzo Chiaramonte, la figlia del 70enne marsalese Salvatore Alessandro Cudia, processato con l’accusa di maltrattamenti in famiglia.
Vittima dei suoi scatti di violenza sarebbe stata la moglie, I.C., di 64 anni, che a un certo punto fu costretta a scappare da casa. La donna, che a fine settembre 2016 è stata ospitata in una struttura protetta, si è costituita parte civile con l’assistenza dell’avvocato Francesco Vinci. Adesso, in aula, la figlia, che vive nel nord Italia, ha sostanzialmente confermato le accuse al padre e proseguendo nella sua testimonianza ha detto: “Ho vissuto in famiglia fino al 1990. Poi, a 18 anni, mi sono sposata e mi sono trasferita a Mantova, dove, ad un certo punto, venne anche mia madre perché aveva finalmente deciso di andare via da lui, ma mio padre, nientemeno, si presentò a Mantova. Feci ovviamente di tutto per non fargli sapere dove era mia madre, perché lui le avrebbe intimato di tornare a casa non con i modi giusti. Ad oggi, non riesco a riprendere un rapporto con mio padre”. Pesantissime le contestazioni mosse nell’atto d’accusa redatto dalla Procura sulla base delle indagini svolte dalla polizia del Commissariato marsalese, al quale la donna si è rivolta, telefonicamente, quando fu chiusa a chiave in una stanza. Secondo l’accusa, dal marito. A liberarla furono i poliziotti. Fu quello l’ultimo atto di un difficile (per la donna, pare, un vero “incubo”) rapporto coniugale. Numerosi gli episodi di violenza contestati all’uomo, difeso dall’avvocato Gabriele Pellegrino. Più volte minacciata di morte, la donna, in varie occasioni, avrebbe subito sputi, schiaffi, pugni e bastonate. Teatro dei fatti contestati un appartamento del quartiere popolare di Amabilina. Nell’atto d’accusa firmato dal pm Niccolò Volpe si legge che l’imputato “maltrattava, con carattere di abitualità, la moglie sottoponendola a continue vessazioni e ad un insostenibile e penoso regime di vita familiare così da provocare nella stessa un perdurante stato di sofferenza fisica e morale incompatibile con normali condizioni di vita”. Le avrebbe, in particolare, impedito di uscire di casa e l’avrebbe minacciata di morte, dicendole: “Ti ammazzo con il martello”, “Ti butto dalla finestra”, “Guarda che finirà male. Non farmi arrivare all’esasperazione perché ti butto dal balcone”. Le avrebbe pure impedito di vedere in tv i programmi che a lei piacevano, nonché di frequentare parenti, vicini e amici “se non dietro sua espressa autorizzazione”. Ed inoltre l’avrebbe sottoposta a controlli “a sorpresa”, rincasando anticipatamente, e rimproverandole persino di danneggiare la lavatrice perché lavava troppo. Come se ciò non fosse sufficiente, l’uomo avrebbe anche sperperato parte della sua modesta pensione di anzianità (460 euro al mese) nel gioco e nell’alcool. Costringendo la moglie a chiedere denaro in prestito a conoscenti “per far fronte alle esigenze familiari”. Nonostante la figlia inviasse loro, periodicamente, del denaro, che lui, però, per orgoglio, rifiutava.