Le mie profondità ti anelano nella notte, lo spirito che vive in me viene in cerca di Te... (Is 26:9a)
Così Isaia parla al suo Dio: suonano come le parole di un innamorato. Sì: perché Isaia è innamorato del suo Dio. La notte gliene fa desiderare la presenza ed il sentimento che nasce in lui dal profondo sembra quasi involontario, incontrollato, qualcosa che, nell'intimo, lo muove irresistibilmente. Le traduzioni sono ciò che forse più assomiglia a noi esseri umani: un qualcosa di inevitabilmente imperfetto, incompiuto. Quando Isaia si rivolge a Dio nel breve passo che abbiamo ascoltato quest'oggi, gli parla, naturalmente, in ebraico; e Gli dice: “La mia nefesh ti anela nella notte”. Solitamente, le traduzioni delle bibbie italiane riportano, per nefesh, il termine “anima”, di modo che le parole di Isaia suonano in questo modo: “L'anima mia ti anela nella notte”.
Soltanto che, detto così, qualcosa dell'originale si perde. La lingua ebraica, a differenza della nostra, non conosce termini astratti. Che cosa vuol dire? Che ogni parola, in ebraico, si esprime attraverso un riferimento alla realtà concreta. Nefesh, letteralmente, significa gola: il luogo da cui esce la voce. E la voce di ciascuno, si sa, è unica ed inconfondibile. In più, la voce è anche lo strumento con cui, se cerchiamo qualcuno, soprattutto di notte, quando non possiamo vederlo, chiamiamo il suo nome. Isaia chiama Dio e lo chiama con quella voce che sa che Dio riconoscerà tra mille, quella voce che, da sola, sarà sufficiente a Dio per comprendere che, chi lo sta chiamando, è Isaia e non qualcun altro.
Prosegue poi il nostro testo: “Lo spirito che vive in me viene in cerca di Te”. Traduciamo con spirito il termine ebraico ruah, che letteralmente significa vento. Il vento, com'è noto, è un elemento imprevedibile, sfuggente, che sa essere dolce o furioso: in ogni caso, un qualcosa di indomito, ciò che più ricorda la vita e la libertà. La parte libera di Isaia, quella che più profondamente lo fa sentire vivo, quella che spesso lo mette in moto e gli dà la forza dell'annuncio e della denuncia: questa è lo “spirito”, la ruah di Isaia. L'elemento vitale: non a caso, femminile. Ma la cosa più interessante è che ruah è il termine usato per definire anche lo spirito di Dio, che non è, quindi, un qualcosa di estraneo all'uomo. Spesso il linguaggio religioso pone l'accento sulla distanza che separa Dio dall'essere umano: meglio farebbe a sottolineare quelli che sono gli aspetti che rendono Dio e l'uomo l'uno vicino all'altro. Uno di questi aspetti, forse il più significativo, è che Dio e l'essere umano condividono il medesimo spirito.
A partire dalla mia meditazione di questo breve versetto di Isaia, vorrei proporvi di riflettere insieme su un aspetto tra i mille che lo spirito possiede. Il primo riguarda quella che chiamerei “la necessità della sosta”. Cerco di spiegarmi. Credo che ognuna ed ognuno di noi abbia sperimentato, nell'arco della propria esistenza, una sensazione di smarrimento, dovuta all'incapacità di trovare un senso a ciò che viviamo. Di solito, questi momenti di lucidità, nascono non appena facciamo ciò che il nostro stile di vita normalmente ci impedisce di fare: una pausa. È quando ci fermiamo che, d'improvviso, ci sembra affannoso e vano il nostro correre, inseguendo desideri che non sono i nostri, convincendoci che il vuoto non sia altro che uno spazio da riempire, mai da abitare.
Dimentichiamo che il vuoto è lo spazio in cui un suono si propaga, è il luogo dell'ascolto, il silenzio nel quale Dio e la vita ci chiamano a sostare, a rifiatare. È luogo di ristoro, “pieno spazio vuoto”, fonte alla quale dissetarsi. Senza pause non c'è ritmo, non c'è pulsazione, non c'è respiro. Tutto ciò che è vita, vive di pause. La vita che sempre più conduciamo, è una vita priva di pause, una corsa in cui è meglio fermarsi il meno possibile, perché quando si sta fermi si pensa, e pensare, spesso, è doloroso. Eppure questa quiete apparente è il luogo più fertile dell'autentico ricercare. Isaia cerca Dio nella calma del proprio respiro, come sprofondando, lentamente, dentro di sé, come se tornasse per un istante nel grembo da cui, un giorno lontano, è uscito, come se rifiutasse di rimanere sconosciuto a se stesso. Fermarsi mette in movimento l'invisibile che abita in noi e permette a Dio di attraversarci, di sostare un istante nelle nostre vite, di farci avvertire, almeno un attimo, un'ombra di senso, una carezza sui nostri cuori stanchi.
Alessandro Esposito - www.chiesavaldesetrapani.it