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12/08/2019 06:00:00

Le ombre sul turismo: io, lavoratore sfruttato a San Vito Lo Capo / 1

Pubblichiamo la storia in due parti di Riccardo, un giovane marsalese, neanche ventenne, che ha provato sulla sua pelle la condizione indegna di sfruttamento dei lavoratori del settore della ristorazione, come del turistico - alberghiero, della nostra provincia. Riccardo ha voluto raccontare la sua esperienza da giovane lavoratore a San Vito Lo Capo, capitale del turismo locale. Ecco la sua storia, in due parti, oggi e domani.

***

 Gentile redazione,

raccontare la verità rischia di costarmi una denuncia per diffamazione, se non di peggio. Ho il respiro pesante, sento l’ansia scorrermi dentro. Tuttavia lo farò, in nome di tutti i lavoratori che non hanno il privilegio di poter ribellarsi a chi li paga due euro l’ora, se non di meno.

Mi chiamo Riccardo, ho 19 anni e sto per raccontare la mia esperienza da sfruttato a San Vito Lo Capo.

A giugno del 2019 trovai lavoro come cameriere da un annuncio su Facebook. Mi dissero che anche senza esperienza mi avrebbero preso. Le recensioni su TripAdvisor erano impietose, ma trovai questo difetto come la sicurezza che non avrebbero avuto grandi aspettative su di me, che avrei quindi mantenuto il posto. Era la prima volta che mi accadeva di essere accettato a lavoro, in quanto tutti i datori vogliono lavoratori già rodati a cui non vada spiegato niente. Parlando al telefono, dichiarò che avrei lavorato, sentite bene, con un contratto part-time da quattro ore al giorno per una paga di almeno 800 euro più le mance, con vitto e alloggio a San Vito. Feci un breve calcolo: sarei stato pagato 26,67 euro al giorno, quindi 6,67 euro l’ora. Nessuno rifiuterebbe un’offerta simile, quindi partii e mi presentai lì, nonostante la puzza sotto il naso.

 

Ci incontrammo, erano le 17 dell’11 di giugno, ci sedemmo all’interno del ristorante semivuoto. Ci conoscemmo un po’, chiacchierammo del nostro hobby in comune, il Risiko, finché il mio datore non mi disse che oltre alle quattro ore da contratto “se capita che ci sono ancora molti clienti ti chiamiamo”, gesto del telefono: “oh, qua abbiamo bisogno di te”. Mi descrisse anche l’alloggio che mi avrebbe offerto:

“Non è una reggia, è una casetta puliticchia e senza pretese”

Il modo in cui disse “puliticchia” nascondeva un’altra frase: “non lamentarti”. Poco dopo suo figlio mi ci accompagnò. Valigia in mano, dopo una breve passeggiata a parlare ancora di Risiko ci trovammo di fronte alla porta di quella che sarebbe stata la mia casa fino a settembre. Una normalissima porta in legno, vecchia di almeno 40 anni, usurata dal tempo, chiusa da un lucchetto e non dalla serratura. Un posto umile, cinque stanze, un bagno, una sorta di veranda, nove materassi. Parecchia polvere e molte ragnatele. Spettava ai miei colleghi pulire, da quel giorno anche a me. Nonostante somigliasse piú a un tugurio che a una “casetta puliticchia”, mi aspettavo di peggio. Del resto a caval donato non si guarda in bocca. Posai le mie cose, mi cambiai e iniziai subito a lavorare. Per la prima volta uscivo dalla mia zona di comfort e mi mettevo a lavorare per portare a casa dei soldi anziché stare tutto il giorno a leggere, giocare, uscire spillando soldi a mio padre. Mi sentivo orgoglioso, sentivo di star prendendo finalmente in mano le redini della mia vita, avrei avuto uno stipendio decente e avrei vissuto a San Vito, quindi nel tempo libero avrei potuto conoscere turisti e darmi pure alla pazza gioia. Già, il tempo libero.

 

Iniziai alle 18. Dopo le 22 sarei uscito e mi sarei fatto un giro della città, in cui prima non avevo mai messo piede. Quel giorno imparai a portare dieci bicchieri in una volta, a lavare le posate, a sistemare un tavolo e apparecchiarlo, a passare il mocio. Volevo imparare il prima possibile questo mestiere, sia per fare bella figura sia per la mia crescita personale. Il cuore mi pulsava di soddisfazione. Il principale diceva frasi molto belle sulla vita, sul lavoro, aveva una certa filosofia che me lo fece stimare. Si fecero le dieci, ma capii che sarei rimasto ancora un po’. Pensai: semplici straordinari che verranno retribuiti. Nel frattempo continuavo a lavorare senza battere ciglio, camminavo sempre, non mi sedevo mai, pulivo i bicchieri e le posate, chiedevo se c’era qualcosa che potessi fare, insomma sarei rimasto lí per sempre se non mi avessero fermato. Il figlio del principale a un certo punto mi chiamò per dirmi che potevo andare.

 

Il mio primo giorno di lavoro si concluse a mezzanotte, per ben sette ore di lavoro, di cui tre di straordinarî che per legge vengono pagate di piú, di cui una notturna che viene pagata ancor di piú. Nonostante l’orario sforato, mi sentivo felice di muovermi dove prima non c’ero. Stanco e sudato, ritornai in alloggio. Non avevo le chiavi, quindi rimasi fuori. Per fortuna avevo il numero del datore, che mi disse che avrei avuto una copia per me, oltre a dov’erano i miei colleghi. Li raggiunsi al bar, parlammo del piú e del meno, poi dopo qualche minuto tornammo insieme. Tornato a… casa, mi confrontai meglio con il letto su cui avrei dormito per tre mesi, un vecchio materasso striminzito con sotto le molle. Temevo che non sarebbe stato comodo dormirci. Misi le lenzuola e mi ci buttai senza farmi la doccia. Era confortevole, tutto sommato. La sveglia alle nove, lavoro alle dieci. Niente passeggiata a San Vito. Pensai: “Sarà per domani sera”.

 

 

Il giorno dopo mi alzai alle otto, avevo dormito bene. Dopo una doccia veloce andai subito a lavorare. Aspettammo il figlio del principale, parlando del piú e del meno. Una volta arrivato, entrammo e iniziai subito a passare la scopa, il mocio, ad apparecchiare i tavoli e mettere i bicchieri, aiutato da un mio collega che nel frattempo mi spiegava tanti piccoli dettagli fondamentali. La lama del coltello va verso l’interno, le forchette una accanto all’altra in due livelli diversi, mai parallele; se c’è vento i bicchieri mettili sul tovagliolo, cosí non vola. Nella cucina era affisso un cartello con scritto a caratteri cubitali “Obblighi dei lavoratori”, con relative sanzioni per le negligenze. Mi domandai dove fosse il cartello complementare, quello con scritto “Diritti dei lavoratori”. Nel frattempo si erano fatte le 11, io intanto pensavo a che tipo di vitto si trattasse, in quanto non avevo fatto colazione. Proprio qualche minuto dopo mi incaricarono di apparecchiare il tavolo per il personale. Tutto pronto, ecco i piatti. Degli scarni piatti di pasta, con acqua, pane e parmigiano. Il mio primo pasto da cameriere. Dopo mangiato, sparecchiammo e subito iniziò il fiume di clienti. Piú un ruscello, a dire il vero, essendo bassa stagione. Gentilezza, qualche parola in inglese, occhio a lasciare tutto sul vassoio. Un ritmo tranquillo rispetto ad altri ristoranti molto più frequentati. Puliti i bicchieri, le posate, si fanno le 15. Avevo lavorato cinque ore, una di straordinario. Pensai: “Vabbè, per ora sono in prova, è normale lavorare un po’ di piú”. Il figlio del principale mi disse che potevo andare. Adesso avrò un pomeriggio tutto per me, potrò fare questo benedetto giro della città e magari andarmi a divertire, pensai. Questo mio pensiero fu distrutto dalla frase di un mio collega: “Ci vediamo dopo”. Aspetta… in che senso? Intende domani? No, intende proprio più tardi. Me lo disse come se fosse stato normale passare il nostro tempo libero ancora lí a lavorare. Ebbene alle 17 partí il secondo turno, alle 18 mangiammo, lavorammo, si fece l'una. Eravamo tutti pronti per staccare, ma un gruppo di turisti era rimasto seduto ai tavoli in quella che per loro doveva essere stata una bella serata. Chiesi al figlio del principale se potessi togliere le tovaglie intorno al loro tavolo, per guadagnare tempo. Mi rispose:

"No, dai, non è giusto."

Mi diede l'impressione di essere una persona a cui non piacciono le ingiustizie. Ancora mi domando se la condizione di lavoro dei camerieri e dei cuochi per lui fosse giusta.

Il mio secondo giorno mi impiegò per 13 ore, di cui nove di straordinari, di cui due notturne. Anche quella sera non feci il giro della città, ero troppo stanco ed era troppo tardi, mi limitai a fare compagnia ai miei colleghi e poi tornammo a… casa. Pestammo qualche scarafaggio e ci mettemmo a dormire.

 

La mattina dopo mi svegliai alle nove, avevo dormito ancora bene con mia grande sorpresa, mi preparai e mi buttai a lavoro. Di nuovo spazzare, pulire, apparecchiare. Nel frattempo imparai ad aprire gli ombrelloni, a versare la birra alla spina, a dare il vino, a portare i piatti. Tutta teoria da assodare nella pratica, specie per questi ultimi. Nonostante le difficoltà cui andavo incontro, sapevo che sarebbe bastato concentrarsi, mettere da parte le lamentele, crederci e dare il massimo e tutto sarebbe filato liscio. Il mio terzo giorno di lavoro durò 12 ore, il triplo di quanto avrei dovuto, quindi avrei ricevuto una paga tripla piú il notturno, pensai.

 

Per la terza notte di fila dormii bene nonostante il materasso si fosse un po’ incurvato, quindi mi convinsi che fosse davvero buono e che io avessi avuto solo un pregiudizio. Doccia, cambio, lavoro. Il quarto giorno fu quello in cui cominciai a sedermi. Il collega che mi spiegava le cose mi intimò anche di non fermarmi, perché sarebbe stato come oziare, e lí si doveva lavorare. Nessun problema, sono giovane, posso camminare. Certo, dopo ore e ore senza pausa di giorno in giorno, cominciano a cedere le gambe e la schiena.

 

Le giornate si assestarono sul lavorare mezza giornata nel vero senso del termine: dodici ore sempre, con una, due, anche tre ore notturne. Tra i colleghi regnava il silenzio, in alloggio non parlavamo di lavoro né della condizione di sfruttamento in cui ci trovavamo. Allora fui io a iniziare il discorso. Con tristezza ricordo che le opinioni si divisero in tre: non sono giuste condizioni di lavoro e non ci possiamo rassegnare; non sono giuste ma ormai le cose stanno cosí e non ci possiamo fare niente; sono giustissime e anzi c’è molto di peggio. La rassegnazione a questa vita aleggiava sui miei colleghi, che questo lavoro lo fanno da anni, pagati come me che ho iniziato adesso. Il tempo libero non esisteva, c’era un riposino fra le 15 e le 17 e una dormita fra l’una e le nove e mezza. Per conoscere qualcuno a San Vito in un modo appena appena mondano avrei dovuto fare le ore piccole e lavorare deprivato di sonno. Ricordo una frase detta dal collega piú anziano di tutti, sulla sessantina, dal forte spirito siciliano che ha sempre fatto il muratore e che per disperazione si è ritrovato a poggiare forchette sui tovaglioli:

“Andiamo a dormire, domani sarà di nuovo battaglia”

Battaglia vera, non quella del Risiko.

_ CONTINUA_
FINE PRIMA PARTE - Continua domani