Liliana Segre è una signora di 89 anni, dai capelli candidi, dolce, garbata, gentile, di un'intelligenza viva e penetrante. Nel lager di Auschwitz, dove fu deportata quando aveva 13 anni, perse gran parte della sua famiglia. Sopravvissuta per miracolo a quell'inferno, ha dedicato la sua vita alla causa della memoria, della pace, della lotta a ogni forma di odio e di razzismo. Nel 2018 il presidente Mattarella l'ha nominata senatrice a vita. Come si potrebbe odiare una persona così? Eppure in questi giorni abbiamo appreso che la signora Segre riceve quotidianamente, attraverso i “social”, una media di duecento messaggi di odio. Insulti orribili, frasi irripetibili. Una violenza verbale feroce e nauseante. Per l'unica colpa di essere un'ebrea. Di essere sopravvissuta allo sterminio del suo popolo. Di essere stata eletta per i suoi meriti di testimone storica come rappresentante in Parlamento del popolo italiano. Di essere famosa (e forse ricca, chissà, una “ricca ebrea”!). Di essere un esempio di tutto ciò che è giusto e buono, di tutto ciò che contraddice e contrasta la volgarità, l'odio, il fanatismo, la violenza, il sonno della ragione che genera i mostri.
Come s'è potuto arrivare fino a questo punto? Si potrebbe rispondere, intanto, che la belva immonda dell'antisemitismo non era mai scomparsa in Italia e altrove dopo la fine della Seconda guerra mondiale. Ricordo che mia madre ricorreva talvolta all'epiteto di “Sus l'ebreo” per indicare una persona troppo attaccata ai soldi. Mia madre era una donna buona e pietosa, non era affatto razzista, e forse non sapeva nemmeno che cosa fosse l'antisemitismo. Però era nata nel 1923, ed è evidente che il veleno dell'educazione nazifascista ricevuta durante la sua infanzia e giovinezza doveva essere penetrato molto a fondo nel suo subconscio. Ricordo anche che in Polonia, dove spesso mi recai per una quindicina di anni a partire dal 1991, molto spesso dovetti costatare con grande sorpresa come il pregiudizio antiebraico fosse incredibilmente radicato e diffuso, nonostante il fatto che proprio tra i confini di quella nazione si fosse consumata la maggior parte degli orrori della Shoah. E ricordo ancora come, e quante volte!, mi sia toccato udire (in privato) incredibili frasi e discorsi antisemiti da parte non di burini ignoranti, ma di persone – non necessariamente nazifasciste – che godevano di grande stima nel mondo intellettuale. Artisti, scrittori, studiosi, giornalisti, saggisti rinomati.
Eppure tutto questo schifo era rimasto sotto traccia, confinato tra i fenomeni anomali e marginali, e comunque non troppo preoccupanti, fino almeno a una quindicina di anni fa. Poi rapidamente tutto è cambiato. Dopo l'undici settembre del 2001 è esploso dapprima il fenomeno impetuoso dell'islamofobia. Ricordate “La rabbia e l'orgoglio” della Fallaci? E l'invasione dell'Iraq nel 2003, che dette inizio al catastrofico sfascio del mondo arabo islamico? E poi venne il colpo di grazia del 2008, con l'inizio della grande crisi economica che ha gettato nell'impoverimento e nella disperazione decine di milioni di persone in tutto il mondo occidentale. Paura, disperazione, rancore sociale dilagante. E quindi la necessità assoluta di individuare i “colpevoli” della catastrofe planetaria. E quali colpevoli? I soliti, cioè “gli altri”: migranti, neri, zingari, musulmani, omosessuali, e ovviamente i plutocrati, le “élites nemiche del popolo”, e gli eterni ebrei. In questo modo sono riesplosi, nel nome del populismo e del sovranismo, tutti i pregiudizi e tutti i sentimenti di odio che il mondo credeva di avere quasi archiviato.
La dissidente turca Ece Temelkuran, che da tempo vive in esilio in Croazia per avere criticato i misfatti di Erdogan, ha pubblicato quest'anno un libro che s'intitola “Come sfasciare un paese in sette mosse”. Ricostruendo le vicende turche degli ultimi anni, la Temelkuran ci fa comprendere – e davvero rabbrividire per questo! – come in realtà sia facile e veloce trasformare una democrazia in una quasi-dittatura sfruttando l'onda popolare della paura, e soprattutto della rabbia e dell'orgoglio nazionalista. L'orgoglio, spiega l'autrice, è un sentimento assai pericoloso. Reagire alla crisi con l'orgoglio può condurre nel baratro. Molto meglio, dice lei, è reagire con la dignità. Contrapporre la dignità all'orgoglio vuol dire scegliere la via della concordia, dell'inclusione e della ragione. Vuol dire aprirsi alla speranza e mettere in fuga i fantasmi della paura e di un lugubre passato fatto di guerre e di dolore. Molto meglio affidarsi a questo sano suggerimento, piuttosto che riesumare ancora il nefasto esempio della rabbia e dell'orgoglio fallaciano.
Selinos