di Marco Bagarella
Osare. Un’immagine che non osa, è utile tanto quanto un apriscatole davanti all’uovo, fresco di giornata, della nostra gallina. Con quell’attrezzo, se siete in vena di contraddirmi per benino, provatevi a schiudere, a sgusciare, a corrompere perfettamente la provocante superficie, e vedete un po’ cosa vi succede.
Ebbene, siete già tornati dal bagno? Vi siete lavati le mani, avete tolto le tracce del vostro testardo misfatto dal pavimento in cucina? Dunque, sedete. Ed ascoltate.
Facciamo al caso che l’attrezzo sia il cinema, e la realtà, o meglio, la rifrazione spettrale del vero, l’uovo. Avremo bisogno di uno strumento ardito, funzionale, che metta in bella mostra tutte quelle trovate audaci, spesso poco amate da chi crede che la vita sia meno di una noia notarile, e che alla fine ci faccia montare una pietanza degna di questo nome.
Chiamato, qui, a ripercorrere con la memoria del cuore, dieci anni di cinema internazionale, mi trovo a spulciare un film per anno, un solo film per regista e, arbitrariamente, non volendo considerare la filmografia dell’elmo di Scipio (che potrebbe aprirsi con “Pietro” di Gaglianone, ignorato, e chiudersi con “Il traditore” di Bellocchio, glorificato).
Diceva Roosevelt (che odio citare, ma ad ogni San Silvestro mi concedo un dispetto), che è molto meglio osare cose straordinarie. Tornando, quindi, al discorso nostro, meglio che io ricordi quelle visioni che, per come lo può la settima arte, m’hanno fatto sobbalzare sullo scomodo divano, inducendomi spesso a saperne di più sulla storia, ad inventarmi una sorta di rapporto amicale con regista e troupe di attori. In pratica, ad entrare a far parte di una famiglia fittizia. Che a dare del ‘tu’ ad un operatore di regia, ad esaltarsi pubblicamente per lo script di uno sceneggiatore, a ripetere a memoria la cantilena di un cast koreano, credetemi, in società ci guadagni sì la famiglia fittizia ma ci perdi la tua, quella reale!
Detto questo, ecco il cinema che ho amato. Che, spero, darà qualche passione anche a voi.
2010.
Finiscono gli Anni Zero, ed inizia il secolo di Wikileaks. Insomma, siamo tutti lì, sospesi tra il tangibile ed il virtuale, tra il teatro del potere ed il potere del sogno. Proprio come fa, nel suo monumentale capolavoro-testamento “I misteri di Lisbona”, il regista cileno (ma francese d’adozione) Raoul Ruiz che, in poco più di sei ore di realismo e di immaginazione visiva, spiattella il modo supremo di come rendere un feuilleton, disamina universale di quella cosa complicatissima che è l’esistenza umana.
2011.
Riuscirà il giovane Sumida a spazzare via l’insopportabile marciume che sporca la faccia della Terra? E la dolce Keiko, l’unica creatura sulla faccia della Terra, che sembra avanzare verso di lui con il passo della grazia e la dottrina della misericordia, lo salverà dalle acque torbide dell’odio verso sé e gli altri? “Himizu” ruota su tale thrilling morale, ed è doveroso vedere e rivedere questo ‘pezzo d’opera’ del giapponese Sion Siono, che, non per nulla, mette ad inizio film le sconvolgenti immagini dello tsunami di marzo.
2012.
Chissà che fine hanno fatto quei buontemponi che avevano acquistato casa a Bugarach, oscuro villaggio sui Pirenei. L’unico posto al mondo, urlavano le furbe agenzie immobiliari, dove non si sarebbe abbattuta l’apocalisse, prevista all’ora esatta del 21 dicembre di quell’anno. Magari stanno ancora cercando di rivendersi la ‘sola’, consci oramai che l’unica cosa che finì quell’anno fu il cinema, così come lo avevamo inteso prima. Non secondo il calendario Maya, ma secondo “Holy motors”, gioiello del sublime e lunatico Leos Carax.
2013.
Kafka passeggiò in lungo ed in largo, per l’intero anno, quell’anno. Ditemi voi dove lo trovate un altro tempo, in cui si generano due papi a San Pietro e, poco distante, un presidente che aveva spergiurato di non volerne sapere più nulla delle ‘oche del Quirinale’, fa carte false per farsi rieleggere dalle oche. Ma l’atmosfera praghese, serve anche a ricordarci l’opera cinematografica più sconvolgente di quei mesi, il film in due parti “Burning bush” della regista Agnieszka Holland, sul sacrificio di Jan Palach. Roba che varrebbe proiettare ogni anno nelle scuole.
2014.
Un periodo decisamente galleggiante. Su un’isola che c’è e non c’è, il georgiano Ovashvili ambienta un film splendido e misconosciuto, quel “Corn island” che vale da solo metà dell’intera produzione cinematografica. Forse le poche sale che lo programmarono, in Italia, restarono vuote perché si era tutti fuori, allora, con il naso all’insù, alla notizia che una sonda spaziale europea era atterrata sul dorso di una cometa. Che non è certo la Luna, ma sempre di un’isola fluttuante e splendente si parla, tanto minacciosa quanto fragile.
2015.
Non ho alcuna remora a definire “El abrazo de la serpiente” (tra l’altro, ‘trasmesso’ in una puntata della rubrica “Stalker”, su queste pagine), come l’ “Apocalypse now” del secondo decennio di questo secolo. Il regista Ciro Guerra, poi confermatosi con il buon “Oro verde” e sputtanatosi con l’inguardabile ollivuddiano “Waiting for the Barbarians”, ci mette tutto ciò che un canto di viaggio e di integrazione può volere. Ode che invece non ebbero i 900 morti del peschereccio affondato in Libia, ad aprile, monumento orribile in mezzo al mare aperto.
2016.
“Le secret de la chambre noire” è un film prezioso, ed il suo regista, il giapponese Kiyoshi Kurosawa, un perfetto emulo di quei grandi maestri dell’horror dell’anima che invasero e fecero tremare gli spalti cinematografici, nei gloriosi anni sessanta. Epoca in cui tutto ed il contrario di tutto, erano possibili. Una storia che pare intrecciarsi, con il rinvio a tecniche arcaiche di lettura della realtà, alla rinascita di quel movimento populista che è tornato in auge un po’ ovunque. Domanda: il populismo avrà lo stesso finale del film?
2017.
Un fatto-mondo. Uno shock assoluto. Qualcosa per cui vale la pena dire, che il domani non sarà uguale all’oggi.
Quello che accade negli States della politica manipolata, spettacolarizzata ed esportata, pare avere un’eco in un film cinese indipendente, lungo duecento e passa minuti. “An elephant sitting still” è rabbia e sconcerto, e paura. Mischiare Donald Trump e l’esordiente Hu Bo, è una bestemmia, e di certo il giovane regista cinese si starà rivoltando nella tomba. Perché Hu Bo non c’è più, Trump, impeachment permettendo, invece sì.
2018.
In cauda venenum Coreae. Si narra che un serial killer, adesca giovani ragazze con il pallino del canto, le circuisce e poi le ammazza, bruciandole da qualche parte. Si narra che sbadiglia alle loro note, e questo lo tradirà. Si narra che “Burning”, del regista coreano Chang-dong Lee, non doveva essere distribuito in Italia, ma, poi lo è stato. Si narra che, nel luglio dell’anno considerato, sia stato fatto ascoltare un brano inedito di Fedez ad un leone in gabbia. Dopo pochi minuti, il felino ha vomitato, rigettando il pasto appena consumato.
2019.
“Parasite”, ultima fatica di Joon-ho Bong, mischia Seoul e la Jugoslavia underground di Kusturica, echi pasoliniani e turbe melodrammatiche che rimandano a Renoir. Ma più del sangue, dell’inganno e del fango, ciò che rimane in mente è la scena in cui il figlio (il futuro) è in cortile dentro ad una tenda, e parla coi genitori (il presente), con una gracchiante coppia di walkietalkie. Un film fiammeggiante, postilla delle fiamme di Notre-Dame, dell’Amazzonia, delle rivolte in giro per il mondo. E dei botti che vi apprestate ad appicciare, suppongo.
Beh, avete in mano l’attrezzo e l’uovo, adesso. Buona frittata e buon 2020 a tutti!