«Adesso inginocchiati tu, Pino, mio Caino, fratello traditore. Inginocchiati davanti a Dio e agli uomini. Chiedi perdono. E pentiti raccontando tutto quello che hai visto e sentito tra i mafiosi. Svela i nomi e gli sporchi affari di chi ti sei ritrovato vicino, stando ad accuse che sono palate di fango sulle nostre vite...». Dopo una notte insonne, le gocce, il colloquio con uno psicologo, la pressione che balla e la testa che scoppia, ecco Rosaria Costa reagire contro il fratello finito in carcere perché associato ai boss dell’Arenella e di Vergine Maria. Le borgate frequentate da bambina. Quel pezzo di Palermo da dove era fuggita via sposando a vent’anni Vito Schifani, uno degli agenti dilaniati nella strage di Capaci. Trent’anni dopo, nella sua nuova casa in Liguria, tutto avrebbe immaginato Rosaria, un figlio capitano della Guardia di Finanza, tranne di ritrovarsi col fratello Giuseppe, Pino per amici e parenti, in cella per associazione mafiosa.
Lei, che aveva lanciato ai boss il monito a pentirsi, «a inginocchiarsi», ripete lo stesso appello al fratello?
«Adesso è il turno di Caino. Di questo debosciato che non vedo da tempo, nemmeno quando corro a Palermo per assistere mia madre, alle soglie dei 90 anni, pronta per morire se qualcuno le raccontasse cosa sta accadendo. Come vorrei morire io. Travolta dalla vergogna. Ma forse un modo per uscirne, per non soffocare, per tenere ancora la testa alta c’è. E dipende da Caino...».
Che cosa vuole fargli sapere?
«Che per salvarsi, che per salvarci adesso deve chiedere ai magistrati di essere ascoltato, di ammettere tutte le sue colpe, se ne ha, e di rivelare ogni recondito segreto, se ne conosce. Parlare e accettare il giudizio degli uomini, non solo quello di Dio».
Tornava qualche volta in quelle due borgate?
«Mai. Ho rivisto forse due anni fa la casa di Pino, una stamberga malandata a due passi dal cimitero, vicino a un mare che potrebbe essere bellissimo come tutta la zona dove invece si soffoca perché l’aria della mafia arriva alla gola».
Aveva intuito che suo fratello, come rivela un pentito, s’era dissociato con i padrini della mafia prendendo le distanze da lei quando, nel ’92, tuonò contro Cosa nostra?
“Come avrei potuto capire e sapere tutto questo? Ignoro se sia vero. Per me Pino resta quel fratello che ho visto crescere con mille problemi. L’adolescenza di un bullizzato. Lo chiamavano “Pino il checcho”. Per la balbuzie. Sempre isolato. A un tratto, a tredici anni, non è più andato a scuola. E ha cominciato a cercare un lavoro, a fare il manovale, il muratore...».
Frequentando pessimi personaggi?
«Gli ambienti malsani delle borgate palermitane. Non riesco a capire come possa essere caduto nella trappola. I mafiosi sono dei mostri che reclutano questi elementi. Soprattutto i deboli. Per farli sentire forti. Sfruttandoli. Ominicchi. Ma non può essere una attenuante per Pino che così ha rovinato la sua e la mia vita».
E se suo fratello non dovesse accogliere l’invito a pentirsi?
«Allora lo ripudierei definitivamente. Ma non può restare in silenzio rovinando pure i suoi ragazzi, un figlio benzinaio, una figlia estetista. Li affosserebbe per sempre».
Dicono che fosse al servizio degli Scotto e di quel padrino comparso dopo il carcere perfino sulla barca con la statua di Sant’Antonio e la fidanzata a bordo...
«Manifestazioni di volgare potenza messe in scena per conquistare un malinteso rispetto anche usando e sfruttando i santi e la Chiesa. Per i creduloni come quel Caino dal quale adesso devo difendermi per salvare anche la vita di mio figlio...».
Un capitano delle Fiamme Gialle...
«Capite la vergogna che si rovescia addosso alla nostra storia per quel maledetto? Aveva quattro mesi il mio bimbo quando arrivò la strage portando via la nostra vita. Che fatica riprenderla a pezzi, provare a costruire un futuro senza Vito per quel bimbo che cresceva facendo mille domande. E io dovevo cercare le risposte. Tormenti intimi a parte, adesso sembrava che tutto si stesse rimettendo a posto. Parlo di mio figlio. Vederlo giurare fra i cadetti, superare la laurea, la prima divisa, i gradi... e le manifestazioni antimafia con il capo della polizia, con Don Ciotti, con gli altri familiari di vittime di mafia... Ecco, penso a tutto questo e chiedo scusa al mondo per avere avuto un mostro in famiglia».
Corriere.it