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23/04/2020 19:05:00

Povertà e sofferenza via ermeneutica per la redenzione

  Il periodo attuale che stiamo vivendo, se da una parte ci costringe a ridimensionare i nostri rapporti con l’esterno, dall’altra ci aiuta a riflettere sull’importanza dei vincoli stessi e sul ruolo che assumono coloro che, in un contesto globale, sono considerati parte dell’umanità: “i poveri”. Su questa categoria sociologica mi voglio soffermare, non in quanto status in sé, ma ruolo che hanno nel contesto umano-salvifico.


I poveri, questo tempo ne ha prodotto tantissimi, come ogni guerra, sono coloro che vivono ai margini della società, sono esclusi perché voluti da essa, sono per questo ultimi, perché non hanno uno spessore nell’economia globale, non hanno potere, né decisionale, né finanziario, sono coloro che, toccati dalle limitatezze, emigrano in cerca di sopravvivenza e di dignità esistenziale, chi a causa della condizione di privazione materiale, fisica, temporanea o permanente (disabili, sofferenti in genere…), risentono più di tutti la solitudine e il distacco sociale come bisogno di comunicazione e di condivisione, anche se morale, della propria condizione.


Eppure i bisognosi sono una categoria teologica non indifferente, voce stessa di Dio che ci interpella con autorità perché l’umanità tutta sia posta in crisi e dia una risposta partendo dalle sue preclusioni individualistiche: «Il Signore vuole avere in noi strumenti vivi del suo amore provvidente, e anche salvarci tramite il loro vivente appello e convertirci dalle nostre chiusure egoistiche» (G. Ferretti, Papa Francesco, la Chiesa e i cambiamenti culturali in Il Regno, 6, 2020, p. 184). Da non considerare la sofferenza come castigo e pena inviati da Dio, addirittura con valore sacrificale, poiché tutto fa parte dell’unico amore e benevolenza di Dio: ogni uomo, infatti, per la Sua misericordia, è salvato maieuticamente dal suo essere. I “poveri” sono la chiave di lettura per comprendere l’incarnazione di Gesù: «Non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori perché si convertano» (Lc 5,27-32) e anche il mezzo attraverso il quale saremo giudicati: «Avevo fame… avevo sete… ero ignudo… carcerato…forestiero…» (Mt 25, 31-46).


Due aspetti voglio sottolineare: i poveri sono immagine di Dio stesso e sono strumento per la salvezza universale: la loro kénosi diventa risurrezione, il loro sacrificio contribuisce a essere espiatorio dei mali dell’umanità. Gustavo Gutierrez Merino, Leonardo Boff, e soprattutto i gesuiti spagnoli Ignacio Ellacuria e Jon Sobrino, teologi del grido dei poveri e teorici capofila della Teologia della Liberazione, parlano dell’esercito dei poveri e del “popolo crocifisso” come di una vera teologia del martirio. E Mons. Antonio Di Donna, vescovo di Acerra: «Siamo un popolo crocifisso che anela a risorgere» (Omelia di Pasqua 2019).

L’essere infermo o povero non è una sub categoria di appartenenza ma un valore intrinseco di cui la Chiesa si è dimenticato molto spesso. La povertà ha un potere nucleare così forte da diventare ricchezza per chi la persegue. È San Paolo a ricordarcelo: «Quando sono debole è allora che sono forte» (2Cor 12,10). Cristo stesso ci ha dato modo di considerare l’impotenza umana come forza capace di smuovere le montagne. È immediatamente alla morte che «Il velo nel Tempio si squarciò in due, da cima a fondo. La terra tremò, le rocce si spaccarono, le tombe si aprirono e molti credenti tornarono in vita» (Mt 27, 51-52).

Non si tratta di elogiare la sofferenza e la povertà tout court, ma di coglierne il profondo significato perché abbia un peso ermeneutico nel cammino di ogni uomo con il suo bagaglio di bene e di limiti e con la sua zavorra che non è da buttar via, spesso impossibile, ma da coglierne l’elemento redentivo e comunionale con il Creatore.

Una teologia ripensata come fedeltà al Vangelo, così come l’ha architettata e sta attuando Papa Francesco è auspicabile nel rinnovamento della Chiesa perché essa sia credibile e fedele al proprio Maestro. La buona novella sono i poveri e solo partendo da essi, con il loro carico soggettivo, esclusivo di ciascun uomo, capiremo la diversità delle membra di Cristo ma anche la potenza rigenerante che accompagna ogni condizione umana. Scopriremo anche la fonte della vera gioia che è più nel dare che nel ricevere, nel saper guardare alla miseria umana non come a una scena per dipanare l’epilogo, spesso ingarbugliato, ma per rendere fruibile qualcosa che serve a «Completare nella mia carne ciò che manca alla Passione di Cristo per il suo corpo che è la Chiesa» (Col. 1, 24).

Salvatore Agueci