di Marcello Benfante e Marco Marino
Scrittrice tra le più interessanti ed emozionanti dell’attuale panorama letterario italiano, Maria Attanasio si colloca all’incrocio tra poesia, saggistica e racconto, realizzando nella sua opera un felicissimo innesto tra una scrittura espressiva, di lirica intonazione, un rigoroso impianto storico-documentario e una controllata invenzione o finzione narrativa.
Dall’intersecarsi di queste vocazioni, che in origine scaturiscono dal verso, risulta una scrittura composita e complessa, la cui misura, il cui ritmo, è una sintetica parsimonia. E dove campeggiano soprattutto figure femminili di fulgida, nonché problematica, esemplarità.
Ma emerge pure, in questa sua scrittura tra il grasso e il magro, tra il primato cromatico della parola e quello razionale del senso, una peculiarità intrinseca della letteratura siciliana. Che è sempre, nelle sue opere più significative, una ricerca di un possibile, ancorché difficilissimo, equilibrio tra il delirio dell’intelletto, lucidamente pessimista, e le ragioni imperative del sentimento.
Il suo nuovo libro, «Lo splendore del niente» (Sellerio, 2020), raduna alcuni racconti che ha scritto negli ultimi anni. Da cosa è dipesa la volontà di raccoglierli?
Mi è capitato di rivederli tutti quanti insieme, casualmente, e mi è sembrato che raccontassero una storia, come un romanzo, come se fossero le tappe di un unico romanzo. Una storia del Settecento, attraverso storie minime. E infatti, questi racconti storici, sono tutti racconti che vanno dalla fine del Seicento alla fine del Settecento, alla vigilia della Rivoluzione francese, con un filo conduttore che li lega. Partendo da queste considerazioni, con Antonio Sellerio abbiamo pensato di pubblicare un libro che li raccogliesse. Fin da subito mi è parso che da queste voci emergesse la volontà, la capacità di resistere al conformismo, di esserci, nella vita e nella storia, attraverso il proprio quotidiano, con piccoli gesti di resistenza.
Nel suo stile di scrittura ci sembra di individuare il magistero di Leonardo Sciascia, il suo cavare e asciugare, sottrarre anziché aggiungere. Ci sembra cioè in antitesi ai tempi d’oggi, soggetti a una certa tendenza quantitativa, a non buttare niente e anzi ad accumulare scarti. Si ritrova in questo giudizio? O lo trova troppo drastico?
Mi ritrovo perfettamente. Ma debbo dire che ho amato profondamente tutta la letteratura siciliana, sia quella barocca sia quella essenziale. E me ne sono abbeverata, è stata un lievito, un lievito che ha cercato di farsi pane. Un altro aspetto che segna il mio stile è la pratica di poesia. Io provengo dalla poesia, che è una grande madre di stile: tutto si tende a semplificare; tutto ciò che non è necessario deve essere rimosso. È stato molto duro il passaggio dalla poesia alla narrazione, e lo debbo a Elvira Sellerio che mi ha forzato a scrivere il primo dei racconti che ho pubblicato con loro, «Correva l’anno…» (Sellerio, 1994).
Perché è stato difficile questo passaggio? Cos’ha comportato per lei?
È stato difficile perché significava passare dal linguaggio essenziale, filtrato, depurato della scrittura poetica a un linguaggio più disteso che è quello narrativo. Ecco, vi confesso che per me fare aprire la porta a un personaggio è stata una montagna da oltrepassare. Però, a poco a poco, ci sono riuscita. E ci sono riuscita quando mi sono accorta di questo: dovevo avere una maggiore umiltà verso il linguaggio.
In che senso “umiltà”?
Nella poesia, tra parola e poeta, c’è libertà assoluta. Tu hai davanti il linguaggio e puoi usarlo come vuoi, in base a quello che devi dire. Al di fuori di te, del linguaggio, non c’è qualcosa a cui devi tenere conto. Nemmeno del lettore, niente. Nella narrazione, invece, bisogna porsi con maggior umiltà. Non mi interessava niente dell’editore, o se il lettore comprendesse o meno quella storia. Di una cosa sola mi interessava e a una cosa dovevo essere fedele, dovevo inchinarmi: era il personaggio, era la storia che volevo raccontarmi. Ecco, quello sì. Dovevo in qualche modo limitare la libertà assoluta della poesia, farla condividere, questa libertà, anche al protagonista delle mie storie. E da lì è cominciata la mia scrittura narrativa.
Una curiosità. Questo passaggio le ha reso più facile, più veloce, la scrittura?
No, anche nella scrittura narrativa, scrivo, cancello, riscrivo, cancello ancora, riscrivo, all’infinito, a un certo punto dico basta, e mi forzo a dire a basta, mi sforzo a dire basta. Altrimenti potrei andare avanti così per sempre. Io sono una che ha una grande cura di ciò che scrive; e vorrei essere come quelli che citavate un momento fa, scrivere così, di getto, scrivere tutto, però non ci riesco.
Ma quando si trova di fronte a un foglio bianco, e sente il bisogno di raccontare, il primo impulso la spinge verso la poesia o verso la prosa?
Avete usato un termine, “raccontare”, non sempre ho il bisogno di raccontare. A volte ho semplicemente il bisogno di dire. A quel punto, scrivo poesie. Sento che devo dire qualcosa che riguarda me: non me in senso autobiografico, me in senso espressivo. Nel senso delle parole, sono le mie parole, le parole che devo a me stessa. E quindi, diventa poesia. A volte invece vado al racconto. Non succede all’improvviso, mi sveglio d’un tratto e mi metto a raccontare qualcosa. Succede solo quando incontro una persona, o anche la traccia di una persona, che mi colpisce, che si insedia dentro di me. Allora devo trovare le parole per raccontarla, non più per dire me, ma per raccontare lei, quella figura oscurata, che in silenzio è rimasta chiusa nel tempo.
Le figure femminili sono al centro della sua scrittura, che tuttavia sembra attenta, seppure in misura minore, anche ai personaggi maschili, non privi di ambiguità, di chiaroscuri, di contraddizioni. Pensa che il ruolo dello scrittore sia in qualche modo una condizione di androginia intellettuale, di empatia al di là dei generi?
Come vi accennavo prima, a colpirmi sono le storie delle persone. Possono essere maschi o femmine, non importa, è quella vita che mi ha colpito, che ho incontrato e che adesso vuole la parola, vuole essere raccontata da me. Prevalentemente le protagoniste sono donne, attorno alle protagoniste, però, ci sono degli uomini. Degli uomini che a volte comprendono, a volte dissentono.
E deve raccontare anche loro.
Nel «Falsario di Caltagirone» (Sellerio, 2007), ad esempio, racconto di Paolo Ciulla: mi colpì moltissimo questa figura di pittore sconosciuto, cancellato, che voleva fare la rivoluzione a modo suo, facendo soldi falsi. Ciò che si insedia in me ha sempre una connotazione, che è la resistenza al conformismo del tempo in cui quel personaggio, quella storia, si sono sviluppati. Tutte le mie storie sono sempre storie di resistenza e di cancellazione, storie di donne e di uomini resistenti e cancellati.
L’esigenza narrativa di cui parla sembra avere tutti i tratti dell’ossessione.
Per me è così, se no, non è. Quando ho incontrato la storia della donna che partecipò all’impresa dei Mille, Rosalia Montmasson, diventò un’ossessione. Dovevo necessariamente cercarla, trovarla. Ho impiegato sette anni per trovarla, cercarla e raccontarla. E così per tutte le altre storie. Si insediano dentro di me, e ci penso, ci penso, e stanno lì. E devo per forza trovare vita e storia per loro. Magari, a volte, inventarla.
Vorremmo parlare del luogo che le sue eroine spesso popolano, Calacte, la trasfigurazione letteraria della città di Caltagirone. Cos’è per lei Calacte? Una Macondo siciliana, il paese delle sue ossessioni?
Lo spazio fisico è spazio fisico, ha un nome diverso, ma è spazio reale. È proprio Caltagirone, con le sue strade, i suoi palazzi: le mie storie nascono tutte da lì. È fondale e nello stesso tempo protagonista. Quando passo per le strade del centro storico, per le due grandi arterie baronali, è come se sentissi, come se percepissi una sorta di latenza di vissuto. Come se bastasse semplicemente toccare quella casa, toccare quel palazzo, entrare in quel giardino, entrare in quel portone, perché quelle storie anonime si materializzino e arrivino a me. Quindi Caltagirone è un luogo reale, ma è anche il luogo dei miei fantasmi. Ogni città della Sicilia cela i suoi fantasmi. Che ci tornano a visitare, a chiederci la parola.
La sua scrittura è sempre stata radicata nella memoria storica, con un’appassionata e tenace ricerca dei documenti. Oggi però il cambiamento radicale introdotto dall’immane esperienza della pandemia sembra imporci una modalità del narrare basata sulla discontinuità e sulla capacità di immaginare un mondo nuovo, del tutto inedito. Pensa di potere o volere rispondere a questa esigenza, a questa svolta epocale?
La mia scrittura è sempre scrittura della presenza, del presente. Queste storie di donne, anche se ambientate nel Settecento, sono però nostre contemporanee, io le sento mie sorelle, non le sento mie estranee. Il bisogno di libertà, il senso di oppressione sono gli stessi. Ho sempre avvertito la scrittura storica come scrittura non dell’assenza, ma della presenza, come diceva Vincenzo Consolo, il romanzo storico è sempre la metafora del presente. Non è mai chiuso nel passato, altrimenti sarebbe assolutamente inutile. Una vita viene restituita per il senso profondo che ha e per il senso che ha oggi. Io, posso dirvi, che sono una che in apparenza bypassa il presente, e lo scrivo solo attraverso il passato o il futuro.
Finora abbiamo parlato di passato. Come raccontare, invece, il futuro?
Ho scritto un romanzo distopico nel 2013, «Il condominio di via della Notte» (Sellerio), che però partiva da quel presente che vivevo nel 2010/2013: con la Lega che avanzava, il razzismo imperante, il pericolo di una dimensione autoritaria, di come poteva finire il mondo. Scrivere quel romanzo era, per me, raccontare il presente, era una storia del presente, una storia del nostro presente. Non so quale sarà il mio destino di scrittura nel futuro, in ogni caso mi piacerebbe scrivere un altro romanzo distopico, e può darsi che lo scriverò, è da un pezzo che ci penso. Non lo so, può darsi; però, per me, passato o futuro, passato immaginato o futuro immaginato, sono sempre presente vissuto.
Un’ultima domanda. Ha parlato della letteratura siciliana come un lievito. Che ne pensa del panorama letterario siciliano di oggi? Quali autori e autrici consiglierebbe per cominciare a esplorarlo?
Penso sia un panorama molto vario, dal romanzo d’appendice a quello più impegnato. Da Simonetta Agnello Hornby a Evelina Santangelo, da Stefania Auci a Elvira Seminara. Anche per i romanzi storici, Silvana La Spina, Silvana Grasso. C’è un universo davvero molto ricco. Mi sono accorta di aver parlato soltanto di donne, ma ci sono anche ottimi scrittori. L’ultimo scrittore che ho frequentato intensamente è stato Vincenzo Consolo, che mi manca moltissimo. Era un poeta: nella scrittura, uno pensa «Retablo» e pensa alla grande poesia, non alla grande narrazione.