Tanti sono i ruoli a cui ogni essere umano è chiamato per svolgere un compito pertinente ai bisogni del vivere civile: funzioni degne di grande rispetto.
A me sembrano fondamentali e imprescindibili quattro: dell’essere genitore, soprattutto madre, medico, presbitero ed educatore. Sono ambiti connaturati con l’essere uomini e che non si scordano mai: ci seguono, camminano con noi e, anche se facciamo finta di scordarceli, loro sono sempre presenti non solo in noi ma nel nostro modo di vivere, poiché sono un tutt’uno come formazione connaturata. Tutti e quattro sono categorie che chiamerei del dono di sé, non sempre scindibili: due prettamente del corpo e due che sono dello spirito e del sapere. Le quattro figure hanno l’una qualcosa in comune con l’altra: tenerezza, condivisione, responsabilità, rispetto, sensibilità, inventiva, fiducia… le rendono analoghe. Per loro vige in termini applicativi il motto cristiano, frutto della loro professionalità, anche se ciascuno ha fatto una scelta confessionale differente: «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 22, 39).
La genitorialità: un “mestiere” antico e gravoso, pieno di responsabilità ma, chissà perché, nessuno ci rinunzia a esserlo se non l’egoista. Non si è padri e madri solo perché si mettono al mondo dei figli, ma perché si accompagnano fino all’ultimo e se, malauguratamente, dovessero andar via prima di noi, il dolore è tale da morirne, quasi, anzi si vorrebbe morire prima dei figli per non sopportare un tale distacco. Non conta come sono i figli, per i genitori essi ci saranno sempre e li accudiranno con amore, con pazienza, con lungimiranza. La loro non sarà mai una intromissione nella vita ma un consigliare per migliorare ed essere pronti al momento opportuno. Si parla dei figli come dei loro bambini, non perché li vorrebbero tali ma per poterli ancora coccolare, abbracciare, sentire il loro profumo come quando erano piccoli. I genitori imparano ad avere una pedagogia personalizzata per ciascuno dei figli e sono pronti a cambiare metodo all’occasione. Diceva un saggio padre e pedagogo, John Wilmot: «Prima di sposarmi avevo sei teorie circa l’educazione dei figli. Ora, ho sei figli e nessuna teoria». La prima teoria è, comunque: «Amare, essere guida e amare».
Il medico è la persona che mette a disposizione la sua competenza scientifica per farti venire al mondo e per seguirti a ogni passo della tua esistenza perché stia bene e superi ogni difficoltà che si potrebbe presentare sul tuo cammino. È colui che ti conduce alla buona salute e, se richiesto dalla necessità, ti dona una seconda vita.
Perché queste qualità si sviluppino è necessario che, da parte del medico, ci sia competenza e amore per la conoscenza e per il prossimo, quell’amore che dovrebbe mettere al primo posto non il denaro ma la vita come donazione, la più elevata fra tutte le elargizioni che riceviamo dalla natura: «Apprensione, incertezza, attesa, aspettative, paura delle novità, diceva Florence Nightingale, fanno a un paziente più male di ogni fatica».
Il vero medico, come il genitore e l’insegnante, non è chi si preoccupa della quantità delle medicine da darti, o di offrirti un patrimonio di nozioni, ma formare di te una persona amante del proprio corpo (e dello spirito), capace del desiderio di sostituirsi a te quando non riesce ad aiutarti, rammaricandosi enormemente, proprio come fa una madre che vorrebbe soffrire lei piuttosto che vedere il proprio figlio patire: «Il dottore del futuro - diceva Thomas Edison, inventore e imprenditore statunitense - non darà medicine, ma invece motiverà i suoi pazienti ad avere cura del proprio corpo, alla dieta, ed alla causa e prevenzione della malattia». Egli, come dice Fromm, deve seguirti per la salute del corpo come se in ogni paziente vedesse il proprio padre, il figlio, la persona che ama intimamente (cfr. “L’arte d’amare”).
Mentre il medico cura il corpo, il presbitero ne cura lo spirito, non a caso egli è chiamato “padre” degli esseri viventi come riverenza a chi esercita una funzione di guida e protezione. Egli esprime ministerialmente la paternità e maternità di Dio e della Chiesa. Un giorno assistetti al consiglio che lo zio di un presbitero, prossimo all’ordinazione, nonostante possedesse poca cultura (faceva il contadino), ma ricco di sapienza, gli diceva: «Mi raccomando: devi essere come il medico, sempre disponibile al capezzale dei tuoi “pazienti” in qualsiasi momento del giorno e della notte». Il presbitero, l’anziano, è sacerdote per tutta la vita, egli dà il sacro, non solo perché lo amministra ma perché dà se stesso per la salvezza di tutti, senza risparmiarsi, mettendo la Comunità al primo posto, dopo di lui. Egli deve essere sacerdote non solo durante l’amministrazione dei sacramenti ma nella vita quotidiana, al di fuori dalla sacrestia, curando tutte le ferite, materiali e spirituali, dando speranza a ogni uomo.
Nell’esperienza personale di ogni uomo c’è quella di avere avuto un presbitero accanto, il quale lo ha introdotto nella vita soprannaturale: gli ha trasmesso una dimensione spirituale e lo ha avviato al contatto con Dio, facendogli scoprire di essere da Lui amato e di avere ricevuto in dono la vita e tutti quei beni che gli sono stati elargiti, a partire dai genitori.
Il presbitero, come il medico, è colui che quando cadiamo, ci rialza e ci pone in un percorso che è quello della misericordia di Dio che ama tutti indistintamente, al di là delle miserie personali. Egli ha la capacità di confortarti solo col mezzo della Parola, trasfondendoci la Grazia divina. Egli ci ricorda la miseria umana, a partire dalla propria fragilità.
È grande il rispetto che si deve a un presbitero perché lui ha a che fare con le cose divine ed è capace, con il potere ordinato, di condurre Dio visibilmente sulla terra: i sacramenti diventano i canali visibili della invisibilità stessa di Dio: «Se io incontrassi un sacerdote - diceva San Francesco d’Assisi - ed un Angelo, saluterei prima il sacerdote e poi l’Angelo». E lo stesso Santo: «Tutta l’umanità trepidi, l’universo intero tremi e il cielo esulti, quando sull’altare, nella mano del sacerdote, si rende presente Cristo, il Figlio del Dio vivo».
La figura del maestro ce la portiamo sempre dentro. Egli esprime il desiderio della conoscenza e della scoperta. È un in-segnante, cioè colui che segna, lascia qualcosa nella mente e nel cuore dell’allievo. Egli è l’altro, l’alternativa ai genitori, colui di cui fidarsi. Nella sua vita personale sarà sempre maestro perché ricorderà i suoi alunni e sarà portato a incontrarli e a dare sempre i consigli giusti. Il maestro è sempre colui che impara nella vita e trasmette, per questo è attento a qualsiasi cambiamento. Per il maestro i suoi alunni sono come dei figli, senza se e senza ma. Egli nel rapporto è il ben voluto perché si pone, col suo metodo, alla pari dei suoi alunni con umiltà e, come dice A. Gille, «Se tu sai essere fanciullo pur restando maestro / se tu sai essere maestro senza sentirti maestro / se i tuoi allievi vogliono somigliarti, / allora, solo allora / TU SEI MAESTRO» (in “Se tu sei maestro”).
Dalla parte del discepolo, chi ha incontrato un vero maestro ha una grande responsabilità: trasmettere quel patrimonio che ha ricevuto e di valorizzare un dono che è la cultura (cfr. “L’importanza di avere un Maestro”).
La maturità di ogni uomo è saper inglobale queste figure per essere ciascuno di noi: padre e madre, medico, sacerdote, maestro di noi stessi per offrirci, a sua volta, agli altri in una perenne missionarietà e condivisione di vita che genera, prepara, assimila quell’humus di valori che dovremmo trasferire all’umanità come mezzi vivificanti che rendono tutti uguali per natura, sentimenti, percorso terreno, capacità di diritti e doveri.
Salvatore Agueci