di Marcello Benfante e Marco Marino
Quando nel 1996 apparve per Sellerio la sua opera prima, I delitti di via Medina-Sidonia, Santo Piazzese, col suo “blues palermitano”, ebbe l’effetto di una svisata jazz.
Disorientava un po’ un certo suo distacco ironico e parodico nel ricusare l’invadenza pervasiva del fenomeno mafioso, rivendicando invece le ragioni dei “sani, buoni, misteriosi delitti” che in tutto il mondo hanno reso celebre e amabile il detective-novel.
C’era una provocatoria verità in quella presa di distanza che poté sembrare ad alcuni un valzer nostalgico, ma era blues e jazz.
A prima vista anche Piazzese, con la sua flemma, il suo sorriso, la sua aria placida, lo si potrebbe scambiare, adagiandosi un po’ su certi collaudati stereotipi, per uno di quegli intellettuali sornioni e scanzonati, che non si scaldano, non sono disposti alla pugna per questa o quella bandiera. Ma a conti fatti Piazzese si rivela uno scrittore serissimo e preciso, di scientifica esattezza, si potrebbe forse dire, di misurato senso critico e autocritico.
La misura, il dosaggio, è forse la principale qualità stilistica e psicologica di Piazzese, la sua cifra essenziale.
Un autore intelligente e innovativo. Non troppo freddo né troppo caldo. Non preletterario né naif. Non dixieland né be-bop.
Con un acchito preterintenzionale (“senza premeditazione”) sebbene molto ponderato ed equilibrato. Un piglio positivo e volitivo, ma senza presuntuose sicumere (“sperando di non andare a sbattere”). E un umorismo non privo di acidità e di ombre in cui si scorge in controluce la consapevolezza di quel sentimento filosofico, drammaticamente fondamentale per la sopravvivenza, che è l’ironia. Un’ironia blues, s’intende, malinconia e sottile. Sicilianissima.
Lei si è definito “un biologo prestato alla scrittura”. Ma nella percezione dei suoi lettori il rapporto sembra inverso: uno scrittore che si presta quotidianamente (magari suo malgrado) alla biologia. Che parte ha la sua formazione scientifica nella costruzione dei suoi romanzi?
Ho buttato giù la prima pagina del mio primo romanzo senza premeditazione. Come se le mani avessero preso autonomamente l'iniziativa di muoversi sulla tastiera saltando la fase della volizione. Mi sono posto il problema di sottoporlo a un editore solo dopo averlo finito. Mi riproponevo, se fossi riuscito a pubblicarlo, di fermarmi lì e continuare esclusivamente con il lavoro di ricerca all'università. Non avevo fatto i conti con l'evenienza che la scrittura potesse finire col prendermi la mano; e, sopra tutto, con le "capacità persuasive" della signora Sellerio. All'epoca, ritenevo convintamente di essere – appunto – solo "prestato" alla scrittura, e ho continuato a pensarlo almeno fino all'uscita del mio terzo romanzo, Il soffio della valanga, nel 2002. Poi è cambiato qualcosa e il rapporto tra le due attività – anche se sarebbe più corretto chiamarle condizioni – è evoluto verso il paritetico. Ma ci sono voluti più di 16 anni, perché, dopo un unico tentativo, per fortuna abortito (la partecipazione, nel 1986, al Premio Alberto Tedeschi, bandito dai Gialli Mondadori), ho impiegato 10 anni prima di decidermi a provarci di nuovo, a fine '95. Il romanzo, nel frattempo, era cambiato molto rispetto alla prima stesura, perché avevo continuato a lavorarci saltuariamente, a tempo perso (molto perso). L'ho mandato alla Sellerio, e sei mesi dopo era pubblicato. Il cambiamento di scenario, dopo l'uscita del Soffio, è stato facilitato da una drammatica mutazione – in negativo – delle prospettive della ricerca, nel mio settore, all'università. Le cause erano molteplici e sicuramente un ruolo importante l'ha avuta l'entrata a regime della riforma così detta 3+2.
La mia formazione universitaria e i decenni successivi di attività di ricerca hanno sicuramente contribuito a determinare non solo la costruzione, cioè la struttura dei miei romanzi, ma hanno pure influenzato in profondità anche la mia scrittura, quello che si potrebbe definire "lo stile". Credo che accada a tutti gli autori che hanno alle spalle una professione diversa dall'essere uno scrittore a tempo pieno. Specialmente se, come nel mio caso, il protagonista è un io narrante che fa lo stesso mestiere dell'autore. Tant'è che la scrittura del Soffio, in cui il protagonista è il commissario Spotorno, che viene raccontato in terza persona, si differenzia rispetto ai precedenti, sia nella scrittura che nelle atmosfere di fondo. Oggi, grazie anche al fatto che nel 2010 ho dato le dimissioni dall'università, sono diventato uno scrittore che – come è felicemente ipotizzato nella domanda – si "presta" volentieri alla biologia. Nel senso che, anche se sono in pensione, dedico sistematicamente tempo a tenermi aggiornato sugli argomenti scientifici che mi interessano di più, ma con un maggior grado di libertà rispetto a prima, quando era prioritario leggere a tappeto tutta la letteratura scientifica che riguardava il mio settore specifico.
Attraverso i suoi romanzi, dell’ormai celebre Lorenzo La Marca conosciamo la maturità e il passato. Da qualche tempo, però, non si fa più vedere. Ha ancora dei conti in sospeso col suo personaggio?
È vero che da troppo tempo manca un nuovo romanzo con Lorenzo La Marca, però, negli ultimi anni, sono usciti, in antologie Sellerio "in giallo", 5 racconti con Lorenzo protagonista; messi insieme, hanno la consistenza di un romanzo. E, se venissero letti in ordine di pubblicazione, da piccoli indizi disseminati qua e là, si capirebbe che le 5 storie sono in sequenza cronologica. Nell'ultimo di questi racconti Cronache di un contrabbandiere etico, c'è pure un piccolo cenno a quello che dovrebbe essere il mio prossimo romanzo con La Marca protagonista. Camilleri, quando pubblicava un'antologia di racconti con il suo commissario, la definiva un osso lanciato a Montalbano. Fatte le debite proporzioni, credo che si tratti dello stesso meccanismo. Detto questo, mi sembra che ogni autore seriale finisca prima o poi con il cumulare conti in sospeso con il suo protagonista. Anche se non sono sicuro di potermi definire uno scrittore seriale: quanti romanzi con lo stesso protagonista ci vogliono? Tre saranno sufficienti? Nel mio caso, c'è un'aggravante: quando ho iniziato la stesura dei Delitti di via Medina-Sidonia, io e Lorenzo eravamo coetanei. Oggi, per lui sono trascorsi non più di 5-6 anni; per me ne sono passati 34. E questo non posso perdonarglielo. È diventato un rapporto asimmetrico: io invecchio e lui no. E non sono pronto a fare invecchiare anche lui. Allora, i miei conti con Lorenzo cerco di regolarli "temperando" via via il personaggio, rendendolo meno pervasivo. Cerco di trasmettergli qualcosa del mio Super-Io più maturo. E lui in cambio mi trasmette qualche stimolo del suo spirito giovane, che mi sforzo di non trasformare in giovanile. Sono consapevole del rischio di deludere chi si aspetta il "solito" La Marca, ma guai a lasciarsi condizionare dalle aspettative dei lettori. Uno scrittore deve andare dritto per la sua strada, quale che sia. Sperando di non andare a sbattere.
Ciò che caratterizzava i suoi esordi era soprattutto il rapporto tra le sue storie e i suoi personaggi con la città, con la Palermo in cui queste storie e questi personaggi avevano luogo e vita. Poi questo rapporto si è un po’ allentato. Palermo non ha più molto da raccontare?
Man mano che passa il tempo, vado maturando sempre di più il sentimento verso la città, che Enzo Sellerio aveva magistralmente espresso con la frase "io non vivo a Palermo, vivo a casa mia". Non sono ancora a questo stadio, e spero di non arrivarci, perché il contrario sarebbe un prendere atto che la condizione umana in questa città si sarebbe ulteriormente deteriorata. Poi, guardandomi intorno, mi si consolida l'impressione che la condizione umana si stia deteriorando anche nel resto del Paese. Se fosse vero – e mi pare che lo sia – sarebbe l'avverarsi della più famosa profezia di Sciascia: il trionfo della linea della palma. Ciò nonostante, per temperamento, mi sento più portato all'ottimismo della volontà che al pessimismo della ragione. Altrimenti, come cantava Lucio Dalla, dovrei cominciare a piazzare sacchi di sabbia vicino alla finestra. Palermo sicuramente ha ancora molto da raccontare. Ma non sono sicuro che siano cose che a me piacerebbe raccontare. Che sia questa la vera differenza tra uno scrittore di professione e uno scrittore dilettante, nel senso che Sciascia attribuiva al vocabolo, cioè di chi trae diletto dalla scrittura?
Lei usa una lingua letteraria brillante e insieme pulita, piuttosto lontana dalle contaminazioni e da un certo gaddismo che sono tratti tipici di Camilleri. Ma alla saga del Commissario Montalbano lei ha dedicato una sorta di omaggio metaletterario. Camilleri, insomma, è per lei un modello da seguire per un giallista siciliano? O da cui è preferibile rispettosamente discostarsi?
Penso che la cosa più sana per uno scrittore sia prendere le distanze dai Maestri e cercare una propria strada. Dopo averli letti e riletti per bene, s'intende. Nel caso di Camilleri, penso che lui fosse troppo intelligente per darsi tout court al "gaddismo". Sono convinto che la sua particolarissima scrittura, il camillerese, fosse la sua forma naturale di espressione, qualcosa che era stratificata nella sua testa di siciliano. Lui stesso l'ha detto davanti a me - eravamo all'Istituto Italiano di Cultura di Colonia - quando ha ammesso che aveva provato a scrivere in un italiano pulito, ma che gli sembrava una lingua artificiale, verso la quale non sentiva alcuna inclinazione. E io gli credo. A me capita di usare sicilianismi o espressioni che italianizzano il dialetto siciliano, ma le limito ai dialoghi, e solo se indispensabile. Proprio perché sono un estimatore di Camilleri, non mi sognerei mai di cercare di imitare la sua scrittura, ma non mi dispiacerebbe possedere la sua capacità di trovare storie. Ovunque. E di reggere qualcosa come quella che lui ha fatto al teatro greco di Siracusa, il suo monologo di un'ora e mezza Conversazione su Tiresia. L'ho visto al cinema. Una cosa da brividi: lui, cieco, davanti al suo pubblico, senza un'incertezza, né la necessità di un suggerimento da parte della sua storica assistente Valentina Alferj, accoccolata accanto a lui. E aveva già 92 anni. Che grande attore, che sarebbe stato, se se lo fosse concesso! Tornando alla domanda, ho scoperto l'esistenza di Camilleri il giorno in cui la Signora Sellerio mi consegnava solennemente la mia prima copia dei Delitti, e al momento di congedarmi, con la domanda: "Conosce Camilleri?", anche una copia della Stagione della caccia. Il caso Camilleri non era ancora esploso. Per mere ragioni cronologiche, non avrei potuto prenderlo a modello. La mia personale scrittura, era già "formata".