In questi sette giorni di interventi e di ricordi, fino al 12 settembre, sulle pagine di TP24 proveremo a ricordare la figura e la produzione di Michele Perriera.
di Gianfranco Perriera
Di animali a casa nostra ne sono girati davvero pochi. Un cane, piuttosto irrequieto ma affettuosissimo, qualche pesce rosso e una tartaruga d’acqua, che per il puzzo che produceva fu presto ostracizzata. I testi di mio padre (che nel prosieguo dell’articolo nominerò, con saggistica prudenza, per nome e cognome), invece pullulano di animali, con valenze assai simboliche. Di alcuni di loro proverò a dire qualcosa nelle righe che seguono.
Omina li chiamavano i latini. Presagi. I segni con cui gli dei dispensavano quel che sapevano. I segni che gli umani avrebbero dovuto attendere e decifrare. Le lettere con cui i superni scrivevano erano spesso gli animali: il volo degli uccelli nel cielo, le viscere fumanti sull’altare o enormi serpenti che fuoriuscivano dal mare per strangolare giovanetti inermi e incolpevoli. Un teatro e una scrittura, che non si adeguino a riprodurre e ad accettare la superficie del reale, hanno la strutturale tentazione di interpretare, suscitare, riprendere e trascendere i segni con cui si scrive il mondo. Perché il passato mantenga una porta aperta sul futuro. Perché le anticipazioni visionarie o profetiche altro non sono, in effetti, che un modo di guardare più addentro al presente.
Gli animali rappresentano anche gli stadi più segreti dell’animo, l’inquieto magma dell’inconscio; sono figura delle passioni, dei desideri, degli istinti, sono identificazioni settoriali dell’umano. Una scrittura e un teatro che vogliano misurarsi con la psiche e i suoi interminati confini, con i suoi ora deliranti ora enigmatici slanci, non possono fare a meno di evocare la figura animale: come Platone nel mito del Fedro o come lo Zarathustra di Nietzsche, il processo di costruzione/individuazione dell’io avviene nell’incontro/scontro con l’immaginario in trasfigurazione animale. Gli animali possono stare a significare, dunque, il precipitare in una abbrutita indifferenza e acquiescenza, possono simboleggiare un afasico e vanesio acconsentire alla legge del più forte. Né dio né animale, creatura del mezzo, però, l’umano: può perciò guardare all’animale ora come fonte d’energia per le sue volontà più generose, ora temerlo come pozzo senza fondo di un catastrofico cedere alle tentazioni più efferate.
L’animale è una miniera di metafore. E la metafora – sostanzialmente aveva spiegato Ricoeur – è un modo di arricchire e straniare l’abituale e banale dicitura del mondo. Quante analogie tra l’umano e l’animale, per quanto riguarda l’aspetto fisico o spirituale, ricorrono nella più ispirata letteratura (dalle favole all’epica, d dalle allegorie medievali sino alle favole morali di Orwell e di Sciascia, solo per fare qualche esempio). Una scrittura e un teatro che si vogliano insieme fantasmatiche e dai profondi rimandi etici non possono che essere attratte dalla metafora animale.
Ad animali, per le tre macroragioni sopra esposte, assai spesso Michele Perriera ha così fatto ricorso nelle sue opere (letterarie e drammaturgiche). Figura e simbolo, l’animale diventa mezzo per dar corpo a una scrittura che si rivela tanto visionaria quanto di profondo spessore etico. Già la zanzara - l’animale scelto quale simbolo di Teatés, la compagnia fondata da Perriera agli inizi degli anni settanta - assume connotazione di scelta di campo estetica ed etica. Animale fastidiosissimo, invero, essa ci rivela che il teatro che si praticherà non è né culinario né consolatorio. Non so se in tale scelta – un certo silenzio che non togliesse al fare artistico e alla vita in genere la sua profonda e gioiosa enigmaticità ha sempre contraddistinto il nostro rapporto – ci fosse un qualche riferimento cosciente al culex dell’appendix virgiliana: la zanzara, cioè, che salva, pungendolo e così risvegliandolo, il pastore dal morso velenoso del serpente, ma che dallo stesso pastore, ignaro, verrà uccisa. Solo dopo qualche tempo l’uomo riconoscerà che proprio all’animale deve la sua salute e perciò le innalzerà un tumulo sacro. Ci fosse, ad ogni modo, o non ci fosse un tale riferimento, mi pare si possa dare per assodato che la zanzara – che viene dalla palude, spesso simbolo dell’inconscio, che porta la malaria, una sorta di malattia, amartia direbbero i greci, che adombra la peste, raffiguri, senza dimenticarne la fragilità (in fondo una zanzara si può schiacciare con un battito di mani), la capacità del teatro – un teatro, non a caso, dalle atmosfere notturne, subliminali - di pungere la coscienza, di risvegliare una sorta di generale, ma troppo spesso obliato, senso di colpa degli umani. Come fa l’uomo dei dolori di cui parla Isaia 53, che tanta parte ha avuto nell’iconografia di Cristo, il teatro che Perriera ha fatto e ha scritto ci ricorda quanto siamo si possa essere, ognuno di noi, colpevoli, anche soltanto per indifferenza, e dei dolore che gli umani hanno continuato ad infliggersi e della dimenticanza che ha cancellato le più gentili ed intense aspirazioni della specie.
Numerosi poi sono stati gli animali, come già detto, che si sono concretizzati nelle sue pagine e sulle sue scene. Canguri e serpenti, pavoni e uccelli del paradiso, pecorelle (per la verità assai poco docili) e bradipi, per citarne solo alcuni. Di tutti s’è arricchita la rilevanza metaforica con una sottile devianza straniante. Per necessità di spazio, a due soli di questi animali dedicherò queste ultime righe: il serpente e il bradipo.
Per il primo mi rifaccio soprattutto a Finirà questa malia?, romanzo edito nel 2004. Nessun rimando all’ouroboros – simbolo dell’eterno ritorno, della totalità – nel serpente di queste pagine. E’ al Genesi che, invece, dobbiamo riferirci, il libro dove esso, però, viene presentato come il più astuto degli animali (3,1). Animale infernale per antonomasia, è un essere che striscia ventre a terra, ma, in quel libro, la sua caratteristica principale è la capacità di seduzione. Pur nella vastità della sua simbologia, il serpente del Genesi rimane – come scrive André Le Coque in Come pensa la Bibbia, libro scritto insieme a Paul Ricoeur – avvinghiato alla “sterilità e all’inerzia”, legato alla polvere alla quale tornerà Adamo e con lui tutti gli umani. Successivamente il serpente troverà la sua gigantesca ipostatizzazione nel Leviatano, figura del caos che minaccia e divora gli spazi ordinati del cosmo e che, nella raffigurazione hobbesiana, sarà il monolitico stato che in cambio del diritto alla vita avrà potrà privare gli individui della libertà gli individui. In Finirà questa malia? il serpente perde qualsiasi vocazione alla seduzione. Persa anche ogni astuzia, è divenuto strumento di controllo al servizio del potere: lento e viscido, munito di occhio elettronico, di videoregistratore incorporato e di morso mortifero, il serpente non dà scampo a tutti gli oppositori di un sistema corrotto che concede svaghi ma proibisce il libero pensiero. In un tempo ormai votatosi al godimento, dove ogni piacere si sperimenta nel disincanto, i serpenti non servono più a sedurre, ma diventano i vitrei e tecnologici controllori di un tempo che si diverte mentre disumanizza, che esibisce alla vista ogni piacere mentre schiaccia le teste di chi vorrebbe continuare a pensare e a guardare oltre la superficie. “Oggi siamo assai più rassegnati, assai più banali, assai più genuflessi verso un destino squallido e livoroso”, commenta Antigone, uno di quei personaggi che, nel romanzo, non rinuncia all’utopia. I serpenti, che strisciano col ventre per terra, solo occhio e delazione, vengono perciò da un inconscio assai ingrigito e sono i gelidi custodi di una squallida e feroce, seppur movimentatissima, banalità.
In opposizione al serpente, si profila il bradipo. Assai più lento del rettile minaccioso, il bradipo è tutto chiuso in sé stesso, quasi cieco, non può né perdersi nel rutilante trionfo del visuale né farsene controllore. Estremo esempio di frugalità in un tempo di dissoluto consumo, “si ciba di una due foglie al giorno”, come si legge in Injury time. E’ “quieto” in un’epoca di accentuata motricità e di sfrenata emotività. Ha fatto del suo piccolo corpo quasi un archivio del mondo, una sorta di museo naturalistico, in un’epoca votata al trionfo dell’artificio tecnologico, alla dissipazione catastrofica delle risorse (anche umane) e arresasi alla più ottusa dimenticanza. Enigmatico simbolo di un tempo di pausa, il bradipo fa da contraltare a un’epoca che, nella più indemoniata accelerazione, sembra celebrare l’assenza di senso: un tempo di apocalissi che non svelerà se non la sua assenza di rivelazione. Quasi ancestrale, ormai, appello alla sospensione del tempo, il bradipo è un totemico richiamo alle mancanze e alle ferite del mondo: il suo quasi assoluto svanire nell’assenza di senno duplica ma insieme smentisce, denuncia e a suo modo arresta l’indemoniato ed efferato vuoto di senso in cui i tempi precipitano.
L’utopia non rinuncia ad un mondo gentile. Non si lascia corrompere dall’inconcludenza dissennata dei tempi. Si conserva, per ora, in uno spazio solitario e silenziosissimo - sembra suggerire Perriera - per sfuggire al morso livido di infiniti serpenti che al potere dell’epoca si sono asserviti. Invita, così, in partibus animalium, non senza una tenerissima ironia, a non farsi complici della catastrofica perdizione dell’umano e del mondo.
[La fotografia di Michele Perriera in evidenza è stata scattata da Shobha]