La Corte d'Assise di Caltanissetta, presieduta da Roberta Serio, dopo oltre 14 ore di camera di consiglio, ha condannato all'ergastolo il boss latitante Matteo Messina Denaro per le stragi del '92 di Capaci e Via D'Amelio costate la vita ai giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e agli agenti delle loro scorte.
Capo della mafia trapanese, Messina Denaro, ricercato dal 1993, è stato tra i responsabili della linea stragista di Cosa nostra imposta dai corleonesi di Totò Riina. Secondo l'accusa, sostenuta in aula dal procuratore aggiunto Gabriele Paci, il boss Matteo Messina Denaro avrebbe determinato all'interno di Cosa nostra "un clima di unanimità senza il quale il capomafia corleonese Totò Riina non avrebbe potuto portare avanti i suoi piani stragisti, se non a rischio di una guerra di mafia". "Non è sostenibile - ha spiegato il magistrato durante la requisitoria, conclusasi con una richiesta di condanna all'ergastolo per il padrino latittante - che Totò Riina avrebbe comunque intrapreso quella strada senza avere il consenso di Cosa nostra, perchè se ci fosse stato il dissenso dei vertici di una delle province ci sarebbe stata una guerra". La storia di quegli anni, dunque non sarebbe stata la stessa se Messina Denaro non avesse appoggiato la linea del padrino corleonese e se non avesse aiutato Riina a stroncare sul nascere le voci del dissenso interno. Quello che si è concluso ieri sera è il terzo proceso che si celebra a Caltanissetta per la strage di Capaci e il quinto celebrato per la strage di via D'Amelio. Nelle altre tranche sono stati condannati a vario titolo capimafia ed esecutori materiali dei due attentati.
Come ha ricostruito Tp24 in una lunga inchiesta a puntate pubblicata questa estate, il primo summit per decidere la stagione delle stragi si tenne a Castelvetrano, alla fine del 1991. E poi Riina mandò Messina Denaro a Roma per provare ad uccidere lì Giovanni Falcone.
Messina Denaro era uno dei fedelissimi di Totò Riina, il suo “figlioccio” come ripeteva il capo dei capi in carcere: "Se ci fosse suo padre… – diceva il padrino di Corleone intercettato dai pm del processo Stato-mafia mentre parlava con il compagno dell’ora d’aria - questo figlio lo ha dato a me per farne quello ne dovevo fare. E’ stato qualche quattro o cinque anni con me, impara bene, minchia, e poi tutto in una volta...". "Loro vogliono fare la Super Procura? – diceva Riina a Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano - E noi facciamo la Super Cosa". C’erano i due fidati del padrino di Corleone a Roma, nella primavera del 1992, per pedinare non solo Falcone, ma anche l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli e il presentatore Maurizio Costanzo. Poi, all’improvviso, Riina richiamò tutti a Palermo. Perché Falcone doveva morire in Sicilia, con un’azione eclatante. Intanto, Messina Denaro aveva fatto arrivare nella Capitale un carico di esplosivo, che sarebbe poi servito per l’attentato a Maurizio Costanzo, eseguito il 14 maggio 1993.
Anche il giorno dell’arresto di Riina, il 15 gennaio 1993, c’era il padrino di Castelvetrano fra i convocati per la riunione della Cupola a Palermo. Bagarella tirò un sospiro di sollievo: “Per fortuna che i carabinieri non hanno seguito Riina, altrimenti ci avrebbero arrestati tutti”.