Al centro di un talk show nazionalpopolare, che replica in modo perfettamente mimico i ritmi e le pose di una puntata di Pomeriggio Cinque (o di un programma simile), il marchese Guiscardo Guidarini, di professione archeologo, viene assediato dalla giornalista d’assalto Veronica Del Muciaro. Nessuno scandalo o evento pruriginoso che lo riguardi, bensì un’incredibile scoperta, anzi un ritrovamento. Guidarini, infatti, ha riportato alla luce un antico teatro d’impianto ellenistico. E mentre prova a parlarne, evitando il tema principale e cercando di denunciare gli orrori e gli scempi edilizi che si trovano attorno al suo ritrovamento, dallo studio viene continuamente interrotto dalla conduttrice del programma, Roberta Riscatto:
“Scusa, Veronica, è in-cre-di-bi-le!” La Riscatto dallo studio mostra un entusiasmo almeno in parte recitato. “Non so se a casa riuscite a rendervene conto, ma è una scoperta pa-zz-es-ca!”
Un dialogo tra sordi, quello tra il marchese Guidarini e La Riscatto. Che mostrando uno dei più frequenti cortocircuiti del nostro presente, la costante incomprensione tra i problemi reali e quelli televisivi, tra realtà e apparenza, apre il nuovo romanzo di Andrea De Carlo, Il teatro dei sogni (La Nave di Teseo, 2020, 432 p., 20€). Sul binomio realtà-apparenza si snoda tutta la storia che, tramite il filtro dell’ironia, riesce a costruire un’efficace favola contemporanea sul nostro triste Belpaese.
Vorrei proprio cominciare da questo straordinario dialogo televisivo, tra equivoci e incomprensioni, che mette subito in scena Guiscardo Guidarini. E soprattutto il suo teatro.
Mi interessava parlare del modo in cui si può creare una notizia falsa che poi si autoalimenta. Si parla tanto di fake news, sono diventate un elemento costante delle nostre vite. Le notizie vengono riprese e diffuse con eccezionale rapidità, molto spesso senza che si facciano le verifiche necessarie. Il teatro ha un significato personale per questo strano marchese Guidarini che l’ha riportato alla luce; in verità, è un ritrovamento di cui lui non vorrebbe parlare, la notizia gli viene un po’ estorta da parte della giornalista.
Lui prova a parlare d’altro: della Sala Slot, delle «decine di ville, villoni, villazze».
E nessuno se ne accorge, nessuno nemmeno lo ascolta. È un altro tipico carattere del nostro tempo, la mancanza di attenzione, anche verso qualcosa che ci riguarda da vicino, che dovrebbe interessarci direttamente. C’è un senso di generale distrazione e, nello stesso tempo, di ossessione su noi stessi, una forma di egocentrismo quasi patologico. Che ci rende incapaci di vedere il quadro più ampio.
A completare il tetragono dei protagonisti del suo romanzo ci sono un’assessora alla cultura e un sindaco. Due figure poco specchiate, potremmo dire. Che ci danno l’occasione, però, di entrare nel mondo politico dei nostri giorni. Perché ha voluto descrivere la nostra realtà politica nel Teatro dei sogni?
Perché la politica è molto pervasiva, è dappertutto. Occupa grande spazio nell’informazione, a tutti i livelli, non solo sulla stampa. Ci sono innumerevoli show televisivi che si basano solo su di quello, o di persone che parlano solo di politica o di politici che parlano direttamente di sé stessi. Ed è diventato un tema molto più basso rispetto a ciò che poteva essere un tempo. Ecco, volevo raccontare da dentro questo mondo, questi personaggi; non mi interessava raccontarli da fuori, con un filtro ideologico che mi portasse costantemente a giudicarli. Volevo cercare di entrare nei loro spazi e raccontare le loro ragioni, capire perché sono come sono e fanno le cose che fanno. La mia chiave di lettura, poi, è molto ironica, è quella che mi riusciva meglio: gli spunti comici che offre la politica sono tantissimi, in termini di rappresentazione teatrale, di caratteri, di scontri, di ambizioni.
In termini di rappresentazione teatrale, diceva. Riprendendo il suo titolo: la politica oggi è un teatro, che però manca dei sogni.
Sì, nel caso della politica non manca soltanto una visione ad ampio raggio, manca proprio un sogno. Per molto tempo abbiamo vissuto dei sogni politici, spesso poco realistici, a volte magari distorti, ma c’erano. C’erano delle visioni: la visione di come un Paese potrebbe essere, di come lo si vorrebbe. Adesso cosa c’è? Strategie a breve termine, progetti personali che portano il piccolo politicante ad acquisire più consenso per avere più potere. Anche questo ho voluto raccontare nel mio romanzo: la meschinità di lavorare per il piccolo tornaconto, per un’ambizione malriposta, per un obiettivo che si consuma nel tempo stesso in cui lo raggiungi.
Raccontare la politica da dentro certo non è facile. Proprio per quella meschinità, per una naturale repellenza che si insinua mentre ci accostiamo. Come si supera questa repellenza per poi poterne scrivere?
Mentre scrivi, quando ti immagini al posto di qualcuno, ti accorgi di scoprire le sue ragioni, ciò che lo porta ad essere così com’è. Che non vuol dire sposare le sue ragioni o identificarsi. Significa rendersi conto, capire. È un’esperienza che mi succede ogni volta che scrivo: non mi interessa raccontare di me attraverso i miei personaggi, mi interessa cercare di raccontare gli altri. Le domande che mi pongo leggendo le notizie, ascoltando la televisione, o anche solo riflettendo, sono poi le stesse domande che entrano e si trasformano all’interno di un personaggio. Il mio intento è capire, ripeto, come possa nascere una certa situazione, gli atteggiamenti di certi personaggi che sembrano spesso ripresi dalla commedia dell’arte. Lo si può fare leggendo, che è un bel modo di farlo. Oppure scrivendo. Scrivere vuol dire conviverci più a lungo con quelle ragioni, con quelle situazioni, con quei personaggi. Allora non maturi repellenza, anche se gli aspetti negativi continuano ad essere presenti.
Un’ultima domanda, a margine della nostra conversazione. Lei crede ancora nella politica?
Io credo che ci potrebbe essere una politica migliore rispetto a quella che ci viene offerta e che ci viene rappresentata. Credo che la politica sia un esercizio di immaginazione, di creazione, di invenzione. Mi sembra che questo manchi del tutto, la capacità di immaginare il mondo in modo diverso da come è adesso. Ma voglio credere che esista la possibilità di una politica che è invece desiderio di trasformazione. Voglio credere che questa possibilità ci sia. Magari adesso può assumere le forme di un’utopia, ma anche l’utopia può servire a dare molti spunti per una politica più praticabile, più realistica, non soltanto astratta.