di Marco Marino
Universale, o meglio cosmico. Sono le sensazioni, i primi e persistenti aggettivi che attraversano il lettore mentre dialoga con la storia di Faustino, voce protagonista del nuovo romanzo di Andrea Salonia, odiodio (La Nave di Teseo, 20€). Perché il racconto della sua vita è un racconto che comprende e ingloba tutti, che ci riguarda intimamente. Faustino, fin dalla prima infanzia, raccoglie e si prende cura delle parole con la stessa attenzione con cui si raccolgono e si curano i fiori più fragili; e capisce che ogni lemma, ogni sillaba, ogni vocale è una porta sull’altro e sull’altrove: sull’altro e sull’altrove che ha di fronte a sé, che lo porterà a diventare un missionario; sull’altro e sull’altrove che ha dentro di sé, che lo spingerà a una continua sfida con l’indicibile, con l’inesprimibile. E ogni forma di indicibile, o di inesprimibile, in fondo, è la forma più pura di ciò che chiamiamo sacro. La parola chiave della vita di Fustino. E di tutti noi.
Com'è nato il personaggio di Faustino?
Faustino siamo tutti noi, e in primis un amico molto caro, la cui vicenda umana è stata per me di grande ispirazione. Una di quelle storie che paiono così complesse, mille vite una in fila all’altra, da sembrarti quasi impossibili perché una sola persona le possa aver vissute davvero. E poi Faustino è entrato di prepotenza nella mia storia, nella mia città natale, nel mio quotidiano, con i colori che amo guardare, le suggestioni originate dalle cose e dalla gente, i libri che ho letto, perfino i viaggi che ho viaggiato.
Perché ha scelto di usare la prima persona?
Amo scrivere in prima persona, a maggior ragione se il personaggio sono io. Un io “universale”, e chiedo scusa se questo dovesse apparire un azzardo o un segno di presunzione, perché non vuole esserlo affatto. E come dicevo, ho proprio avuto la sensazione che le parole messe sulla pagina, le mie formiche in fila indiana come spesso le chiamo, raccontassero di ciascuno di noi. Di noi di fronte a temi importanti, con la vivace curiosità del bambino che siamo stati. Di noi che diventiamo adolescenti, e che attraversiamo senza quasi neppure accorgerci momenti fondamentali e fondanti delle persone che poi saremo: l’amicizia, il sesso, il rapporto con l’altro, Dio, la paura. E ancora, di noi che in seguito siamo uomini adulti, col fardello di esperienze belle e brutte dei giorni che si succedono gli uni agli altri e che vengono vissuti e “interpretati” in base a ciò che abbiamo imparato, e al modo in cui siamo stati educati a viverli. Ho scritto di Faustino in prima persona perché sono medico, e questo mi ha molto aiutato a dare occhi, mani, voce e pensieri ai miei personaggi, arrivati dalla mia quotidianità fatta di parole di donne e uomini che nel corso di tanti anni ho avuto il privilegio di incontrare, e di cui ho letteralmente rapito gestualità, cose dette e cose non dette, chiari e scuri.
La prospettiva del medico può averla condizionata più di altre?
Forse, a dir il vero, lo sguardo del medico che sono mi ha perfino un po’ condizionato, perché non poche volte mi son trovato a immedesimarmi nella persona che avevo di fronte, cercando di provare quanto le mie parole potessero aver destato, belle o brutte che fossero le notizie. Uomini, più che donne, perché noi maschi siamo più fragili di fronte alla malattia, ormai ne son certo. Ecco, anche per questo Faustino sono io, con la mia penna e la mia voce a raccontare di me, ad amare Dio, perfino a odiarlo, a dar acqua alle piante, a prendermi cura delle piccole cose, ad ascoltare l’intorno. Per queste ragioni ho scritto in prima persona. Ma il tutto è venuto da sé, come mi era già accaduto per Augusto di Domani, chiameranno domani. Chissà, magari una prossima volta ci sarà una voce fuori campo, un narratore terzo, che mi racconterà dall’esterno e, insieme a me, i miei personaggi.
Le parole, la passione per le parole, la collezione delle parole, è un aspetto importante del romanzo.
Non solo importante, enormemente importante. Potrei usare addirittura dei superlativi per descrive quanto le parole abbiano peso e importanza, e certo non sono originale nel dirlo, Nanni Moretti docet. Nella costruzione di un personaggio, nel dargli vita, due gambe, una bocca, i capelli, gli occhi, le mani, altro elemento per me particolarmente rilevante, ecco tutto deve permettere che lui o lei siano caratterizzati, e certo sbaglio o pecco di presunzione nel dirlo, ma devono essere peculiari anche se solo figure comprimarie nel flusso della storia che racconto. Così è successo: Faustino ama ascoltare, e ascolta, ascolta, e prende nota mentalmente, arriva fin a collezionare le parole. Parole di cui è curioso, e che cercano di dissetare la sua curiosità. In Domani, chiameranno domani avevo scritto che le parole vanno innaffiate: se non lo avessi già scritto, lo avrei ritenuto perfetto per il mio Faustino, che delle parole si fa la sua armatura, per proteggersi, per attraversare i giorni, per cercare di interpretarli. Perché mica tutte le esistenze dei bimbi son semplici o soltanto felici, e anche se all’apparenza scorrono senza inciampi o scossoni, il “clima” che ogni bimbo vive nel quotidiano ha un forte e imprevedibile impatto sull’uomo che sarà da adulto. Così è stato anche per lui, che fino ai dieci anni non ha parlato, e che poi lo ha fatto così tanto da farlo diventare addirittura il suo lavoro, usando quelle parole per la compassione, che è il patire insieme, per il conforto, per la rabbia e per l’amore. E così è venuto di suo anche l’esergo del romanzo, dalla penna di Claudio Magris: “…Amare, sinonimo di essere, verbo difettivo che conosce solo l’infinito presente…”.
Che valore hanno all'interno della storia di Faustino? In una realtà come la nostra che disperde le parole, le dimentica, la sua attenzione per le parole sembra anacronistica e inattuale.
Questa sua mi sembra una affermazione durissima e perfetta: la nostra realtà che disperde le parole e le dimentica. Questi giorni sono pieni, densi di parole. Parole scritte e dette. Ci siamo riempiti di parole, di cose ascoltate, declamate, sentenziate. Abbiamo subito appunto lettere, sillabe, parole e frasi magniloquenti o povere, fin poverissime, talvolta di acrilico, talaltra lanose, come ho scritto, a indorare pillole di dramma e di verità, o a sbattercelo in faccia con una violenza difficilmente tollerabile. E i più di noi stavano al di qua dello schermo, al di qua della fitta rete davanti alla radio, impossibilitati a esprimere il proprio sentire, il nostro consenso ovvero il nostro profondo dissenso, se non usando, ancora una volta, migliaia, milioni di parole scritte ovunque, e lanciate nell’etere (di tutte le forme, analogiche, digitali o proprio al vento). Parole di cui dimentichiamo poi l’origine e il divenire. Parole di cui dimentichiamo il significato, perfino. Parole pesanti e parole leggere, ma alle quali – troppo spesso, ahimè – tendiamo a non dare la giusta attenzione e il giusto peso. Quindi sì, la mia attenzione alle parole può anche sembrare anacronistica e inattuale: peccato! Quando, avendo letto il mio primo romanzo, Rosellina Archinto mi fece l’enorme dono di chiamarmi con quella sua voce importante mi disse: la sua è una scrittura grassa, ed era un grande elogio. Da lì il resto di bello che è capitato alla storia del mio Augusto.
A proposito del valore delle parole: "odiodio", che dà titolo al libro, non è soltanto un modo di sottolineare un odio supremo, ma soprattutto un anagramma incredibilmente efficace per parlare della conflittualità tra l'io e il Dio: è "Odio Dio", "Odi o Dio", "O Dio, o Dio". Possiamo parlare di questa conflittualità, spirituale e semantica?
odiodio è una parola che non c’è. E poiché non esiste, non è neppure un neologismo, ma un anagramma appunto, e per giunta quasi palindromo nella mia testa, sebbene non lo sia, se non per vivacità delle lettere appaiate, che son poi solo alcune i, delle o e un paio di d.
Com’è sorto questo titolo?
Non so come accada per gli altri scrittori, se il titolo arrivi a valle della stesura dell’intera narrazione o nel pieno o ancor prima che tutto parta. A me l’idea di questo titolo è venuta pressoché all’inizio della scrittura del romanzo, ma al principio mi sembrava scelta non percorribile, azzardata, presuntuosa. Quindi la ringrazio davvero molto, perché anche io credo sia efficace per parlare della conflittualità di Faustino - che siamo poi tutti noi - rispetto a Dio, che ho sempre inteso come il fato, la vita stessa, quella cui Faustino tenta di dar battaglia fino all’ultima parola del suo romanzo. Mi sembra che la conflittualità emerga addirittura fisicamente in modo incisivo laddove l’amore per Dio e quello per Nives divorano letteralmente il corpo di Faustino, uno partendo dalla testa, l’altra dai piedi, e chi prima ne raggiungerà il cuore lo farà suo, o l’avrà ucciso. Questo ritengo sia il miglior modo di raccontare la conflittualità semantica. Poi certo c’è la conflittualità spirituale, e penso che l’intero capitolo Sessantaquattro (scritto in “parole”, come tutti i capitoli, e non in numeri, ndr) la rappresenti e la riassuma. Laddove l’ascolto si frammenta nell’odio, che è sentimento più forte, dice Faustino, ma fondante del suo credere. È difficile raccontare questo in modo differente, ma credo che la conflittualità e l’attesa siano proprio due temi importanti che attraversano il mio romanzo, quasi in ciascuno dei suoi capitoli. Mi torna in mente quando scrissi della tragedia di Montoro superiore, e della realtà crudelmente opposta alla amabilità delle favole. Ecco, anche quel capitolo ben racconta del mio sentire per gli opposti. Quindi: odiodio.
Un'ultima domanda. Dalla mia prospettiva di lettore. Più si legge odiodio più si ha la percezione che sia una profondissima indagine sul sacro. Sul sacro che si può esprimere o che non si riesce a esprimere. Sul sacro dell'esistente. C'è una pagina bellissima:
Che potere ho, che senso ha che io insegni la spiritualità a un popolo che ne ha da vendere, che si è difeso grazie al suo profondo, ancestrale senso del sacro, che ne è stato protetto da noi e per secoli, facendo tesoro soltanto di sé stesso e di quelle divinità che si erano trasformate in suoni, canti e danza, per nascondersi, continuare e sopravviverci. Chi era padre Faustino per immaginarsi questo? Forse un pretenzioso soldato di Gesù Cristo, che Cristo amava, ricambiato, ma niente più che un pretino, soltanto un uomo capace di raccontare storie e mettere le mani tra le mani, e forse non più di quello.
La mia è una percezione errata?
Sa, questa domanda mette a nudo molto della mia pochezza. In totale sincerità, non saprei proprio da dove cominciare per descrivere cosa sia “il sacro”, ma ne ho enorme rispetto, come la mamma di Faustino che si rivolgeva alla Maestra Albina, e si capiva che la M era maiuscola. Perciò la sua domanda mi aiuta molto, quando accenna al sacro che non si riesce a esprimere. Ora, benché io abbia frequentato la parrocchia da bambino, abbia seguito le lezioni del catechismo il sabato pomeriggio, mi sia preparato per la Comunione e per la Cresima, e abbia studiato per otto anni in un Collegio cattolico a Como, il Gallio, cui sono ancora legato e molto, ecco, mai ho sentito una fascinazione per il misticismo. Lo stesso posso dire per tutti gli altri ambiti dove il sentire mistico è descritto e raccontato dai più, luoghi meravigliosi in giro per il mondo, che ho avuto la straordinaria fortuna di poter visitare, alcuni avvolti da aurea fin magica, come pure quelli nel centro della terra. Tutti fuorché Gerusalemme, perché lì il sacro ti attraversa, e puoi essere il più scettico degli uomini – senza essere ateo – che avverti comunque qualcosa di potente. Da medico, per me il sacro è dentro l’uomo. Da ricercatore, è nella scienza. Da uomo, è nelle esistenze delle persone che cerco il sacro, in cui Dio, immagino qualunque divinità in cui si creda, arriva a esprimersi in modo sublime. E non voglio che le mie parole suonino blasfeme, perché non vogliono esserlo affatto. Ecco, io ho immaginato, fin sentito, qualcosa di molto vicino a questo la prima volta che sono stato nell’Africa sotto al Sahara. Esattamente sulla sabbia di fronte all’oceano, tolte scarpe e calze e ho atteso che loro arrivassero. E non te ne puoi dimenticare mai.