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19/01/2021 06:00:00

Come e perché, al grido di “liberate Vito”, è nata nel Belice la legge sul Servizio Civile

Sono centinaia di migliaia oggi i giovani, compresi tra i 18 ed i 28 anni, ad usufruire del servizio civile. E’ sufficiente una semplice domanda ad uno dei numerosi enti che lo gestiscono.

Enti che annualmente, chissà perché, disputano una vera e propria gara per “arruolarne” il maggior numero possibile.

Abbiamo chiesto ad alcuni dei “reclutati” se fossero a conoscenza di come, quando e perché oggi il servizio civile sia diventato un diritto, in alternativa a quello militare.

Nessuno sapeva delle dure lotte sostenute, degli arresti, dei processi prima che si arrivasse alla svolta del novembre 2000, anno in cui la promulgazione della legge n. 331 poneva fine alle discriminazioni subite dagli obiettori di coscienza, tra cui anche cattolici che interpretavano alla lettera l’evangelico messaggio pacifista.

Nessuno sapeva che le basi per ottenere tale legge furono gettate proprio in questo territorio nel lontano 1970, due anni dopo il terremoto della Valle del Belice.

A questo punto occorre fare un passo indietro, lungo cinquantatre anni, quando, in una notte da tregenda di un gelido gennaio, mentre in Sicilia c’era la neve, la terra si mosse violentemente procurando lutti e devastazioni.

Un sisma sconvolgente che aggredì un vasto cratere, che includeva una ventina circa di paesi, che denominarono per sintesi politica “Valle del Belìce, ma comuni, come quelli di Salemi, Vita, Calatafimi, nulla avevano a che spartire, sia geograficamente sia storicamente, con la valle.

Una zona, quella di questa parte della Sicilia occidentale sempre in movimento, non solo geologicamente con i terremoti, ma anche socialmente e politicamente.

Una realtà che, a dispetto delle coppole e scialli neri, indossati da uomini e donne, era stata tutt’altro che immobile, come certa pubblicistica e filmografia di ad effetto amavano rappresentarla.

Basti pensare ai Fasci Siciliani di fine ottocento, alle lotte dei contadini dell’ultimo dopoguerra per la Riforma Agraria o ad una Marcia per la Pace e per un Nuovo Mondo, organizzata da Danilo Dolci, sindacati e organizzazioni cattoliche e comuniste, giusto un anno prima del sisma.

 

Una realtà sempre movimento, quindi, e che il violento terremoto veniva a sconvolgere ulteriormente, mettendo a nudo le antiche piaghe di una società sempre alla ricerca di una via di sviluppo ed emancipazione.

Lotte che, seppure avevano procurato lutti lasciando morti sul terreno, non avevano avuto purtroppo come esito una riforma agraria giusta o insediamenti produttivi legati all’agricoltura e un freno all’emorragia dell’endemica emigrazione.

Ricordate quelle casette rosa? Tutte uguali e melanconicamente sparse nelle campagne. Erano state assegnate ai contadini senza terra da pomposi funzionari regionali e panciuti politici alla fine degli anni ’50, durante manifestazioni pregne di retorica, ma presto rimaste disabitate e abbandonate ai vandali. Gran parte dei terreni espropriati ai latifondisti si rivelarono tra i meno fertili per le coltivazioni e solo produttivi in termini di voti clientelari per i politici di turno.

All’insegna, ancora una volta, del cambiare tutto per tutto restare com’era.

E poco importa se si rivelò una beffa miliardaria a spese dell’erario pubblico.

Stessa sorte, dopo il terremoto, avranno le promesse governative non mantenute che un presidente del Consiglio, giunto dal cielo e planando sul colle dell’antica Alicia, venne personalmente ad elencare in una affollatissima piazza Matrice della Salemi, prima capitale d’Italia.

Il famigerato “pacchetto Colombo”, (portava lo stesso nome del lucano capo del Governo ) venne solennemente illustrato su un faraonico palco, in una giornata di scirocco, mentre imperversavano le note stonate della banda musicale, paradossalmente allestito davanti ai ruderi della Matrice, abbattuta dalla mano dell'uomo e non dalla violenza del sisma.

Anfitrioni della kermesse i “dorotei” cugini Salvo, attorniati dal gotha democristiano siciliano del tempo, accorso da ogni parte della Sicilia Occidentale. Un evento straordinario con una scenografia che ricordava quelle felliniane o che anticipava l’Antonio Albanese del “Cchiù pilu pi tutti”.

Quando si dice promettere la Luna! Poco ci mancò. Persino un insediamento metallurgico nel libro dei sogni!

Era la risposta alla pressione molto intensa e massiccia del popolo, che viveva sotto le tende, al punto che già il 5 marzo 1968, era stata varata una Legge per la ricostruzione e lo sviluppo.

Il tempo trascorreva, la popolazione passò dalle tende alle baracche, ma la legge della ricostruzione giaceva inapplicata.

Una vita precaria e incerta, le baracche umide e fredde, spesso si scoperchiavano per il vento e qualche volta andavano anche in fiamme, come avvenne nella baraccopoli di Vignagrande a Salemi, ma gli impegni del governo e delle istituzioni regionali rimanevano disattesi.

Di buono c’era che la gente, raccolta in comitati cittadina, non si arrendeva rimanendo in perenne e snervante stato di allerta.

Durante un’assemblea popolare a Partanna indetta dal Centro Studi, che si era scisso da quello di Danilo Dolci, viene fuori la convinzione che un governo che non mantiene fede alle proprie leggi, e’ il primo ad essere fuori legge. E di conseguenza si sviluppa l’idea che a un governo fuori legge non si debbono pagare le tasse.

Nasceva un nuova forma di pressione per certi aspetti anche ambigua e irta di insidie. La popolazione si convince di smettere di pagare bolli e bollette.

Si avvia il balletto delle bollette. Dopo essere state raccolte, vennero inviate ai ministeri, i ministeri le spedivano ai comuni, i comuni le rimandavano agli utenti, i quali di nuovo le raccoglievano e le rimandavano nuovamente ai ministeri.

Un apparente circolo vizioso infinito, ma che alla fine produsse il risultato di non fare pagare tasse e utenze alla popolazione.

Ma dai comitati di lotta comunali venne considerata una vittoria di Pirro, a doppio taglio. Narcotizzante. Poteva avere l’effetto di far dimenticare che la legge per la ricostruzione e lo sviluppo rimaneva inapplicata.

Ad alzare il tiro ci pensò Vito Accardo, un ventenne di Vita, che, nel mese di febbraio del 1970, a Partanna, nel corso di assemblea popolare, insieme ad un gruppo di giovani lancia la questione del servizio di leva, ponendo la dirompente domanda: In uno stato fuorilegge è giusto che i giovani prestino il servizio militare?

La risposta fu unanime. No! I giovani sarebbero stati più utili lasciandoli nella zona per contribuire alla ricostruzione materiale e civile dei paesi distrutti.


 

Si fa strada nei mesi che seguono un nuovo tipo di lotta. Si moltiplicano le assemblee. L’opinione pubblica nazionale viene sensibilizzata. Persino il moderato Montanelli si schiera dalla parte dei giovani “renitenti”.

Nasce il Comitato antileva che indice dopo qualche mese una grande manifestazione da tenersi a Palermo davanti al Distretto Militare. Tutti in Piazza Indipendenza, e’ la parola d’ordine.

Una battaglia durissima, che vede coinvolti in prima persona i diciottenni maschi di tutta la Valle compresi i loro genitori.

Si chiede che i ragazzi, in alternativa al servizio militare, facciano un servizio civile rimanendo nella zona terremotata e lavorare per la ricostruzione e lo sviluppo.

Da questo momento si lavora per una Marcia Antileva su Palermo.

Il primo giugno del 1970 e’ la data fissata. Diversi raggruppamenti di giovani si avviano verso Palermo, dove, non a caso, e’ presente anche il ministro della Difesa dell’epoca Tanassi. I manifestanti vogliono parlare con lui.

Da questo momento entrano in scena nomi che in seguito diverranno famosi per altri episodi, alcuni dei quali molto drammatici.

Il giorno prima, il 31 maggio, il questore di Palermo Li Donni emette un provvedimento abbastanza severo. Diffida i giovani manifestanti ad intraprendere qualsiasi iniziativa. Uno stato inefficiente nell’applicare le proprie leggi, mostra subito i muscoli contro chi chiede le sue applicazioni.

Durante la notte precedente, vengono anche intimiditi i parenti dei giovani facendo irruzione nelle abitazioni.

La vicenda assume contorni drammatici, quando le colonne degli automezzi che trasportavano i giovani manifestanti, arrivati nei pressi del bivio Pernice, vengono bloccate e accerchiate da migliaia di carabinieri in assetto di guerra con le baionette in canna.

Viene intimato loro di fermarsi con i fucili puntati verso le gomme dei veicoli.

A comandare i militari e’ il colonnello Alberto della Chiesa. “Siete pagati dai sovietici!” urla ai giovani manifestanti! Ma Francesco Calcaterra, uno dei collaboratori di Lorenzo Barbera, che si trova tra i giovani, prontamente gli risponde che a sua volta e’ lui ad essere al servizio del chiacchierato generale siciliano de Sifar, Giovanni De Lorenzo ( se ne avrà la conferma dopo. Risulterà essere stato tra gli appartenenti alla loggia massonica P2) e ricorda all’alto ufficiale che egli si trova in Sicilia per trovare i latitanti di mafia e non per reprimere le manifestazioni democratiche di un popolo sofferente. La risposta repressiva e’ immediata. Francesco Calcaterrra (oggi vive ad Alcamo) viene subito arrestato, caricato su una camionetta, e condotto in caserma a Palermo.

Un atto che avrebbe dovuto avere l’effetto di intimidire il restante dei giovani, i quali facendo buon viso a cattivo gioco, seppure accerchiati, tatticamente si accampano all’ombra di maestosi eucaliptus, su un campo ricoperto di profumante margherite.

L’attesa e’ snervante.

Qui entra in scena il molisano ministro socialdemocratico Mario Tanassi (nel 1979 verrà condannato per corruzione dalla Corte Costituzionale).

Con una missiva portata da una staffetta da Palermo, si dichiara disponibile a ricevere una delegazione dei manifestanti. Nel corso dell’incontro, promette l’emanazione immediata di una legge che istituisca il servizio civile alternativo a quello militare destinato ai giovani delle zone terremotate.

Francesco Calcaterra viene rilasciato. E la manifestazione viene pacificamente sciolta.

Ma non finiscono qui le provocazioni.

Dopo appena tre giorni, alcuni facinorosi ( fascisti?) provenienti dai paesi circostanti irrompono a Partanna con l’intento di fare il solito lavoro sporco. Mandano letteralmente a fuoco la baracca sede della locale Camera del Lavoro (sembra essere ritornati nel ’21) e aggrediscono Lorenzo Barbera e altri due responsabili del Centro. Il tutto sotto gli occhi delle forze di polizia, stranamente presenti.

In uno stato veramente democratico, ci si aspetterebbe che ad essere arrestati siano gli autori dell’attentato. E invece accade il contrario. Sono i componenti del Centro Studi ad essere immediatamente fermati rinchiusi nel carcere di Marsala.

Vi resteranno due giorni. Erano questi i tempi. Si poteva essere arrestati senza uno straccio d’imputazione. L’intento da parte governativa era di dare “una lezione” al movimento anti leva.

Come si vede, il primo ad essere arrestato nel Belice non e’ stato uno degli accaparratori dei beni inviati dalla solidarietà degli italiani subito dopo il sisma e nemmeno chi si arricchì con la costruzione di baracche e per i lavori di sbancamento e di movimento terra.

Il primo ad essere arrestato il 12 giugno del 1970 e tradotto presso il carcere militare di Palermo di via Pisani fu Vito Accardo, un giovane ventenne di Vita, con l’accusa di essere un renitente alla leva.

Dopo avere rifiutato per ben tre volte di indossare la divisa militare, viene trasferito in manette al carcere militare di Forte Boccea a Roma. Da dove scrive al ministro Tanassi per ricordagli gli impegni assunti nel giugno precedente a Palermo.

Nessuna risposta. Viene invece fissato il processo per il 22 luglio.

Mentre i tutti i muri dei paesi terremotati venivano tappezzati da volantini con il volto del “prigioniero” e con la scritta “LIBERATE VITO” .

A difendere Vito due illustri forensi, Sandro Canestrini, che aveva anni prima difeso le popolazioni dal disastro del Vajont, e Fausto Tersitano, legale storico della CGIL.

A presiedere la Corte marziale un generale, che condannerà Vito Accardo a 4 mesi (e non a 4 anni come titolò erroneamente a tutta pagina il giornale L’Ora) in liberta provvisoria e con il beneficio della non iscrizione. Nelle motivazione della sentenza, questo alto ufficiale, stranamente,riconobbe il valore sociale che aveva spinto Accardo a rifiutare per ben tre volte d’indossare la divisa.

Dopo la sentenza fu inviato a Macomer in Sardegna. Ma poco importava, a quel punto.

Era stato tracciato un percorso, la lotta dei giovani aveva avuto una risonanza europea. Da ogni parte arrivavano attestati di solidarietà politica e umana.

La battaglia era vinta ormai, sul piano morale prima ancora che politico.

Che si concretizzò nel novembre dello stesso anno con un provvedimento legislativo che sanciva testualmente che “i giovani iscritti nelle liste di leva dei comuni della valle del Belice, i cui abitati sono stati dichiarati da trasferire totalmente o parzialmente a causa dei terremoti del gennaio 1968, che dovranno rispondere alla chiamata alle armi negli anni 1971, 1972 e 1973, sono ammessi, a domanda, al rinvio del servizio militare di leva qualora chiedano di essere impiegati in un servizio civile, della stessa durata di quello militare, per la ricostruzione e lo sviluppo della valle.”

Tante sono le vicende negative sulla storia del dopo terremoto nella Valle del Belice.

I tempi biblici della ricostruzione, le ruberie perpetrate senza pudori, l’accordo infame sigillato tra imprese mafiose e qualche nota cooperativa dell’area di sinistra per la spartizione di grandi opere pubbliche.

Per fortuna, c’e’ quella della conquista della legge che istituisce il servizio civile. Una tra le più belle e “romantiche” pagine che mezzo secolo addietro scrissero uomini e donne, giovani e anziani di questo lembo della Sicilia da sempre in “movimento” e che di recente sembra averlo dimenticato.

 

Franco Ciro Lo Re