Il giudice Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta non furono uccisi a causa della trattativa Stato-Mafia, lo dicono i giudici della Corte d’Appello di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza del processo Borsellino Quater, confermando la matrice mafiosa della Strage di Via D'Amelio.
La sentenza - Il Borsellino Quater è il processo nato dalle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza con le quali si è fatta luce sul depistaggio dei falsi pentiti Andriotta e Pulci e che ha confermando la sentenza di primo grado, con le condanne all’ergastolo dei boss Salvo Madonia e Vittorio Tutino, il primo come mandante ed il secondo come esecutore della strage e le condanne a 10 anni dei “falsi pentiti” Francesco Andriotta e Calogero Pulci, accusati di calunnia.
"Strategia del terrore di Costra nostra" - Secondo la corte nissena, "la strage di via d'Amelio rappresenta indubbiamente un tragico delitto di mafia, dovuto ad una precisa strategia del terrore adottata da Cosa nostra, in quanto stretta dalla paura e dai fondati timori per la sua sopravvivenza a causa della risposta giudiziaria data dallo Stato attraverso il maxiprocesso, (nato dall’intuizione dei giudici Falcone e Borsellino)".
Borsellino fu ucciso per "vendetta e cautela preventiva" - “Tutt’al più, le prove raccolte potrebbero indurre a credere alla partecipazione anche di “altri soggetti o gruppi di potere interessati alla eliminazione del magistrato. La responsabilità principale degli uomini di vertice dell'organizzazione mafiosa che, - si legge nelle motivazioni dei giudici - attraverso il loro consenso tacito in seno agli organismi deliberativi della medesima organizzazione, hanno dato causa agli eventi di cui si discute". "L'attività istruttoria compiuta nel dibattimento di primo grado - scrive ancora la corte d'assise d'appello di Caltanissetta - ha consentito di acquisire elementi in base ai quali ritenere che, fin dall'inizio, le indagini condotte per pervenire all'accertamento dei responsabili della strage hanno subito condizionamenti esterni e indebiti da parte di taluni degli stessi inquirenti che hanno forzato le dichiarazioni dei primi collaboratori di giustizia, in modo da confermare una verità preconfezionata e pre-esistente alle stesse dichiarazioni, pur rimanendo ignote le finalità perseguite".
Giovanni Brusca
Brusca e le dichiarazioni sul "papello" - Della trattativa Stato-Mafia a parlarne è stato il boss pentito Giovanni Brusca che aveva saputo da Riina che aveva preso contatti con personaggi delle istituzioni in merito al “papello”, una serie di richieste contro le misure troppo dure adottate per i condannati per mafia. E Brusca dopo le stragi di Capaci e Via D’Amelio avrebbe appreso da Riina che voleva un altro “colpetto”, proponendo l’uccisione di Piero Grasso, giudice a latere del maxiprocesso.
I punti oscuri e il depistaggio - I giudici nisseni confermano comunque i misteri dovuti al depistaggio di alcuni investigatori che imbeccano pentiti come Vincenzo Scaratino, Calogero Pulci e Francesco Andriotta, il perché ad oggi rimane oscuro. Ma ci sono anche tanti altri tasselli ancora in ombra nel mosaico di tutta la vicenda relativa alla Strage di Via D’Amelio e a quello che accadde nell’immediatezza e dopo. La scomparsa dell'agenda rossa è infatti uno di quei misteri, e poi la ricomparsa della borsa del magistrato in circostanze non chiarite nella stanza dell'ex capo della Mobile Arnaldo La Barbera, la presenza di uomini sconosciuti sulla scena del delitto e nell'immediatezza dello stesso" e di una persona estranea a Cosa nostra mentre veniva imbottita di tritolo la 126 usata per l'attentato.
Chi c'era nel luogo della strage, subito dopo lo scoppio? - “Le numerose dichiarazioni raccolte dai testi escussi hanno rivelato numerose contraddizioni che non è apparso possibile superare, gettando al tempo stesso l’ombra del dubbio che altri soggetti possano essere intervenuti sul luogo della strage, nell’immediatezza dell’esplosione, ‘in giacca’ nonostante la calura del mese estivo e l’ora torrida, non appartenenti alle forze dell’ordine e individuati anzi da taluni agenti intervenuti nella immediatezza come ‘appartenenti ai servizi segreti'”.
E chi era lo sconosciuto nel magazzino della 126 - “E tale ultimo particolare appare ancora più inquietante se si considera che ‘di un uomo estraneo a Cosa nostra’ ha riferito anche il collaboratore Gaspare Spatuzza, indicandolo come presente nel magazzino di via Villasevaglios, il pomeriggio precedente la strage, veniva consegnata la Fiat 126 che sarebbe stata, di lì a poco, imbottita di tritolo”, aggiungono. Il boss mafioso di Brancaccio “Giuseppe Graviano aveva impartito ulteriori direttive a Gaspare Spatuzza circa il furto delle targhe di una Fiat 126, chiedendogli tassativamente di compierlo il sabato 18 luglio 1992, in orario di chiusura delle officine o delle concessionarie, evitando effrazioni, al fine di ritardare il più possibile la relativa denuncia di furto che sarebbe stata presentata solo il lunedì successivo, e di consegnargliele la stessa sera”.
Nonostante le tante contraddizioni e misteri rendano poco chiaro tutto il contorno della strage di Via D'Amelio, i giudici della corte traggono due conclusioni che sono di rottura e in antitesi rispetto ad altre sentenze e tesi investigative: l’attentato ha una genesi mafiosa e l'assenza di collegamenti tra la trattativa Stato-mafia e la morte del giudice, che è stata ribadita anche dalla sentenza di primo grado sulla "Trattativa".