Avvocato, ma con la passione per le cose di mafia. Aveva metabolizzato bene linguaggi, atteggiamenti e dinamiche. Dispensava consigli e suggeriva strategia. Era diventata fidata consigliera dei boss dell’Agrigentino, e attento orecchio e messaggero del boss al 41 bis Giuseppe Falsone.
Angela Porcello l’avvocata arrestata nel blitz antimafia "Xydi" di qualche giorno fa tra le province di Agrigento, Palermo e Trapani, era la classica insospettabile di un’organizzazione mafiosa che con discrezione muoveva affari milionari. Anche a danno dei produttori agricoli locali, e con l’aiuto delle famiglie mafiose americane.
Non servono parole
“Io sono la compagna”. “Mi fa piacere, una bravissima persona per quello che lo conosco io…”. Non hanno avuto bisogno di dirsi altro per entrare in sintonia. E per cominciare un rapporto fatto di mezze parole, per evitare che telecamere e microfoni percepissero.
L’avvocata Angela Porcello e lo storico boss agrigentino Giuseppe Falsone, in carcere al 41 bis, avevano una perfetta intesa. La legale al primo incontro tra i due fece capire a chi “apparteneva”, riferendosi al suo compagno Giancarlo Buggea, condannato per mafia nel 2009. Anche per questa relazione Falsone e gli altri boss dell’agrigentino si fidavano di lei. Un linguaggio criptico tra l’avvocata e il boss all’interno del carcere di Novara, fatto di messaggi scritti su un foglio, gesti, mezze parole e quella che gli inquirenti hanno chiamato “sconcertante coordinata danza rituale il cui significato era accessibile solo ai due protagonisti". Colloqui in cui i due si scambiavano anche opinioni sulla società e l’organizzazione mafiosa, come l’esempio del carciofo. Una volta fuori, l’avvocata riferiva al compagno ciò che si erano detti con Falsone.
I summit nel suo studio
Lo studio della Porcello, a Canicattì, era diventato luogo di ritrovo dei boss, dove tenere i summit. Con l’avvocata che aveva ben metabolizzato linguaggi e dinamiche mafiose. I boss lo ritenevano un luogo sicuro, e venivano convocati dalla stessa avvocata: "Siccome sono arrivati dei documenti che volevo sottoporre alla sua attenzione, quando può fare un salto a Canicattì?". La procura scrive che "abbandonato il ruolo di avvocato la Porcello nel corso di una riunione si comportava al pari dei mafiosi presenti, interpretando a pieno lei stessa il ruolo di vera e propria partecipe e organizzatrice dell'associazione mafiosa".
Magistrati e pentiti, ce n’è per tutti
E come ogni mafioso aveva parole di disprezzo per magistrati e pentiti. "Loro hanno scelto una strada in questo momento, la strada dell'attacco", commentava l’avvocata le operazioni antimafia con il boss Falsone che annuiva. "C'è la strada che loro fanno terra bruciata attorno... così la persona si sente con il terreno bruciato ed è come se fosse un animale". Loro sono i magistrati, è il sistema giudiziario che mette alle strette i boss. Anche quelli rinchiusi al 41 bis come Falsone che voleva lanciare una campagna stampa contro il carcere duro. Aveva anche dato alla Porcello una lettera da consegnare ad un giornalista di Agrigento, che poi ha segnalato il fatto alla magistratura. L’avvocata non risparmiava disprezzo per i collaboratori di giustizia. Come Giuseppe Quaranta, le cui dichiarazioni avevano permesso di mettere a segno una delle recenti retate antimafia. Un pentito che per la Porcello si poteva “togliere di mezzo”. "Poi, in questa Favara, ne avete fatti trenta? E due ventotto... a questo non lo potevate togliere di mezzo, vero?... Ma se n'è accorto che cosa ha combinato questo Quaranta? Cosa ha dichiarato?".
Consigli utili
Aveva immagazzinato bene il modus operandi l’avvocata, e dispensava consigli ai boss nel suo studio legale. Per i magistrati si occupava anche di "elaborare strategie per preservare il patrimonio occulto che il capomafia Falsone era evidentemente riuscito a sottrarre ai provvedimenti di confisca". E c’era anche un contatto con un poliziotto, Filippo Pitruzzella, arrestato anche lui nel blitz di qualche giorno fa. A lui diceva di andare a prendere “le bibite”.
L’affare dell’uva
Nel suo studio si discuteva anche dell’affare dell’uva che, come scoperto dai magistrati, fruttava parecchi quattrini alle cosche agrigentine. Lo schema era arcaico quanto redditizio. Il capo mandamento di Canicattì, Calogero Di Caro, aveva indicato il nome di un sensale a cui i produttori di uva e altri prodotti agricoli, dovevano rivolgersi per commercializzare. Una mediazione imposta ai produttori dalle famiglie mafiose di Ravanusa, Campobello di Licata e Canicattì. Un’attività sicura, più del pizzo e della droga, e molto redditizia. La gestione del business era stata affidata da Di Caro a Giancarlo Buggea, compagno dell’avvocata, Giuseppe Giuliana e Luigi Boncori. La percentuale per la mediazione oscillava tra l’1 e il 3 %. Le indagini della procura di Palermo continueranno, in questo senso, per capire se gli imprenditori subissero l’imposizione o ne erano complici per sparigliare la concorrenza. Concorrenza che sembra essersi congelata tra gli stiddari e cosa nostra. Stidda e Cosa nostra sedevano allo stesso tavolo. Tra gli stiddari anche Antonio Gallea, ergastolano in semilibertà, condannato per l’omicidio del giudice Rosario Livatino.
Per ogni mediazione si arrivavano ad incassare anche fino a 500 mila euro. Soldi facili, che poi dovevano essere ripuliti. E qui, entrano in gioco anche gli americani.
Il rapporto con gli americani
Anche i Gambino di New York erano interessati all’affare dell’uva. La mafia agrigentina ha ancora i suoi contatti in America, tant’è che negli anni degli emissari della storica famiglia mafiosa hanno fatto visita in Sicilia per discutere del lucroso affare dell’uva e del riciclo dei soldi sporchi. In particolare durante una visita a Favara si sarebbe parlato di riciclare ingenti quantità di denaro attraverso l’esportazione di uva in giro per il mondo. Il tutto anche attivando una società che doveva fungere da “lavatrice” simulando acquisti fittizi. E proprio Buggea, il compagno dell’avvocata Porcello, diceva di aver avutto sotto gli occhi i documenti per ottenere una fidejussione da 500 milioni di euro. I contatti Buggea li ha anche con gli eredi degli “scappati”, i mafiosi che partirono oltreoceano durante la guerra di mafia con i corleonesi di Totò Riina. Di questi affari Buggea ne avrebbe parlato, infatti, con Franco Inzerillo, boss del mandamento palermitano di Passo di Rigano. Uno dei primi a fuggire in America, assediato dalla furia corleonese.