di Gianfranco Perriera
“La maggior parte dei giovani della fine del secolo – ha scritto Eric J. Hobsbawm nelle pagine introduttive de Il secolo breve – è cresciuta in una sorta di presente permanente”. L’atrofia della memoria, lo sfilacciarsi di ogni filo che collegasse le estasi temporali era il fenomeno che lo storico inglese segnalava all’avvenire. Da questo stesso sentire – dalla citazione di questo stesso passo – prende avvio l’acuta, lucida e insieme dolente riflessione di Adriano Prosperi in Un tempo senza storia, edito da Einaudi a inizio anno. “Se la storia intellettuale dell’umanità si può considerare una lotta per la memoria”, (con i suoi colpi bassi, i suoi imbrogli, ma anche con i tanti tentativi di ridar voce ai vinti e ai dimenticati), in questa avventurosa tenzone l’Europa – a detta dell’autore, professore emerito di Storia moderna presso la Scuola Normale Superiore di Pisa – appare ormai in disinvolto arretramento. La distruzione del passato, recita in effetti il sottotitolo del libro, a indicare lo stato di ottundimento in cui versa la conoscenza storica dell’epoca. Mancanza di attenzione nei riguardi del proprio passato, una curiosità pettegola travolta dall’ossessione del consumo e dall’obsolescenza indiavolata che corrode uomini e cose, la congerie di informazioni che soffia come un uragano sulle nostre teste, l’ignoranza sempre più tollerata anche dalle nostre scuole che hanno obbedito all’imperio di sacrificare “la libertà di studio al criterio dell’utilità perché gli studi costano”, il trionfo della postverità e della storia romanzata e adulterata sono le ragioni più evidenti dell’erosione del sapere storico e dell’evanescenza della memoria. La storia, da più parti attaccata (in fondo soltanto di menzogne ideologiche si tratterebbe in un tempo che si esalta nell’idea che non fatti ma soltanto interpretazioni esistono), cancellata dai programmi d’esami, si riduce a disciplina noiosa o a trama di fiction appassionanti o a pratica ideologizzata. Un tempo, a detta di Locke, era la memoria che garantiva la continuità dell’io. Oggi il passato è un guazzabuglio disastrato e l’io un Arlecchino che non riesce neppure a dimenticarsi del tutto. L’Alzheimer, sottolinea Prosperi, è la malattia della nostra memoria storica, con l’aggravante che se l’Alzheimer è temuto come la peste nel caso degli individui, “l’offuscarsi della coscienza e della conoscenza storica nella società sembra passare quasi inavvertito”. In una delle sue più acute osservazioni Peter Sloterdjik ha suggerito che la paradossale sorte del Moderno era il suo crollare sotto la propria inarrestabile fame d’esperienza. “Una mostruosa simultaneità – ha scritto il filosofo tedesco – si estende così nella nostra coscienza massmediatizzata”, sì che le notizie, perso qualsiasi criterio di rilevanza, danno luogo ad una magmatica uniformità che produce indifferenza.
Una tale dissennata perdita di orientamento storico getta gli umani, tra le braccia del mendace concetto di identità. Crollate le speranze di giustizia sociale e di felicità manifestatesi nel secondo dopoguerra, mentre il neoliberismo esalta il potere del denaro e della concorrenza anche machiavellicamente sleale, al posto della storia emerge una parola nuova, identità, carica “di ardite semplificazioni e di veleni ideologici”. Un’identità esaltata, come già fecero i nazisti, come eredità del sangue e della terra, il cui unico scopo è compensare ogni frustrazione nell’odio per lo straniero. La parcellizzazione della società contemporanea ha smembrato i gruppi sociali e un disperato e spesso inane egoismo connota gli umani: mentre non si ha più “alcuna memoria che possa essere trasmessa come lascito vivente all’interno della famiglia e dell’ambiente di lavoro”, si scalpita in uno stridente oblio, aggrappandosi a un’improbabile – e artatamente costruita – identità di razza o di nazione.
La storia non edifica monumenti, anzi ad essi fa spesso le pulci, come insegna la Scuola degli Annales. Ogni storico, invece, fa opera di disvelamento, “perché i progressi della conoscenza si hanno quando per una qualche ragione si prende coscienza del dimenticato”. Nella prospettiva di una appassionata ri-presa di coscienza – dove il progresso dà più respiro allo spirito e più generosità all’incontro con l’altro – il monumentale non soltanto, come aveva detto Nietzsche nelle Considerazioni Inattuali, devitalizza l’esistenza, ma diviene pericolosa macchina ideologica, “tributo simbolico - come scrive Prosperi – di un’ideale ipotetica anima della nazione”. Bisogna, perciò, saper diffidare della malaccorta identificazione tra storia e memoria condivisa. La seconda è capziosa, farraginosa, ingannatrice, piena di buchi e di rattoppi di comodo, troppo ingenua o troppo furba, è arma ideologizzata. La storia, invece, è indagine critica e consapevolezza del mutamento. Essa “allarga l’esperienza oltre i confini del presente e vale tanto più quanto meno si affida all’invenzione del romanzo e si basa sull’esame critico dei fatti indagati”. La storia è desiderio di comprendere. Comprendere persino ciò che è imperdonabile, come Levi disse a proposito del nazismo. Uno storico non consegna mai qualcosa definitivamente alla storia, come per obliarne definitivamente il senso, come per riporlo in un cassetto lontano da occhi e memoria. Se lo storico come un orco, nelle famosa similitudine di Marc Bloch, insegue il profumo di tutto ciò che è umano, lo fa non per capriccio erudito o per archiviare nel fondo di un magazzino l’accaduto. Lo storico sa che quel che riusciremo a conoscere del passato è appena la superficie spumosa di un immenso oceano. Ridare la voce a quanti sono stati cancellati, come voleva Michelet, non rimanere indifferenti all’incuria o all’efferatezza degli umani, svelare le colpe del potere in nome della verità, come scrive Wolfgang Reinhard, sono, allora, i compiti precipui della storiografia.
Sono i nostri tempi di fulminea velocità, di réclame assordanti e di notizie strombazzate alla ventura. Di risentimenti e di sogni infranti, di corpi annegati e di odi estenuati. Ci siamo lasciati alle spalle le epoche in cui ogni minimo alito dei mortali era registrato nel libro di Dio, per dare al giudizio finale un valore affidabile. Oggi, in preda alla dimenticanza, in tanti affermerebbero che “quando ci sarà la storia, io non ci sarò più”, esibendo, con esasperato ghigno o con impallidito livore, il desiderio di strappare qualche briciola di godimento al presente. Davvero, come ipotizzava Nietzsche, non ci resta ormai che invidiare la felicità dell’animale? Quello, in effetti, “dimentica immediatamente e vede ogni attimo morire e sprofondare nella nebbia”. Non è facile credere che, impunemente, l’instabile umano possa consegnarsi alla beance animale. “Senza la storia è l’insieme della formazione che perde significato e speranza”, intanto ci ricorda Prosperi. Quella dei senza futuro è stata spesso definita la generazione dei giovani già da un bel po’. Prosperi ci invita a riflettere su questa atroce mancanza. Che l’epoca non si consegni alla sparizione, che la coscienza storica ci scampi da una seconda Auschwitz, a questo ci invita la lettura del libro di Prosperi. Ci si accosta alla storia, dice Prosperi, animati dalla speranza. La speranza, probabilmente, di recuperare, quanto di bello e gentile gli umani avevano immaginato e agito nel tempo, e, insieme, di evitare che si ripeta quanto di osceno avevano, sempre nel tempo, perpetrato. “Se la speranza muore – conclude l’autore – al posto della storia si cerca l’illusione o peggio le ideologie ingannevoli e semplificative”.