Parla anche della provincia di Trapani la relazione della Commissione regionale Antimafia sui beni confiscati alla criminalità organizzata in Sicilia. Per diversi mesi la Commissione presieduta da Claudio Fava ha scandagliato le problematiche nella gestione dei beni confiscati.
Un’indagine condotta con lo studio di documenti e l’audizione di prefetti, magistrati, giornalisti, per avere un quadro dei tanti problemi nella gestione di beni e aziende confiscate alla mafia, e quindi proporre dei rimedi. Imprese che falliscono per lo “shock da legalità”, amministratori giudiziari cialtroni, enti locali “distratti” e beni che finiscono vandalizzati e dimenticati.
Ieri abbiamo visto alcuni aspetti siciliani, ma la commissione esamina anche alcuni casi emblematici della provincia di Trapani.
IL CASO LIPANI
Sul solco del caso Saguto, si inserisce un altro caso, emblematico di come evidentemente ci sia più di qualcosa da limare nella gestione dei beni confiscati e nel controllo sulle amministrazioni giudiziarie. Tra le gestioni allegre delle aziende confiscate alla mafia, c’è quella di Maurizio Lipani. Lo scorso luglio 2020, Lipani è stato condannato in primo grado dal GUP del Tribunale di Palermo a cinque anni e quattro mesi di reclusione per peculato e autoriciclaggio e per lui è arrivato anche il sequestro dei beni. Avrebbe utilizzato i conti delle aziende che gestiva come suo bancomat personale. Lipani ha gestito alcune aziende in provincia di Trapani.
Così come riportato in sentenza, ha operato in assoluta carenza di qualsivoglia autorizzazione da parte dei competenti giudici delegati: prelevava ingenti somme di denaro dai conti corrente delle imprese sottoposte alla sua amministrazione o, addirittura, da questi conti ordinava, a vario titolo, bonifici in proprio favore o di terzi. Il tutto, in assoluta nonchalance, senza neppure premurarsi di far pervenire alle cancellerie dei tribunali le relazioni di rito previste dalla legge. Ed è proprio in ragione di tali omissioni – e non tanto su un effettivo controllo di gestione in fieri – che il Lipani viene rimosso.
La Commissione Antimafia siciliana, nel corso della sua indagine, ha sentito il presidente della sezione misure di Prevenzione del Tribunale di Trapani, Agate.
Nel momento in cui le imprese, a seguito della confisca definitiva, passavano sotto la giurisdizione dell’Agenzia, l’amministratore continuava ad operare illecitamente. È quello che accade, ad esempio, con la Moceri Olive Società Agricoli e con i beni di Vincenzo Pipitone.
Il dossier spiega come il caso Lipani non sia solo un “deplorevole “attaccamento” alle casse aziendali, anche quando queste passavano sotto la competenza di altri professionisti o di altra Autorità”. Ma rivelano anche “l’assenza di forme efficaci di coordinamento nei passaggi di consegna tra Amministrazione giudiziaria e Agenzia e, più in generale, un allarmante quanto fatalista effetto delega, come se tutto venisse rimesso alle buone intenzioni del solo amministratore (o coadiutore giudiziario), fedele o infedele che sia”.
In un contesto del genere non stupisce che si sia potuto consentire ai soggetti destinatari del provvedimento di continuare a gestire le imprese che gli sono state sequestrate. Come nel caso della Glocal Sea Fresh, di Mazara del Vallo, di Epifanio Agate, figlio dello storico boss Mariano, e Rachele Francaviglia. E’ stato accertato, infatti, che i due hanno eluso l’esecuzione del sequestro di prevenzione e che si sarebbero avvalsi dell’aiuto di Lipani, amministratore giudiziario nominato dal Tribunale di Trapani. Agate e Francaviglia hanno continuato a compiere atti di gestione dell’impresa, sia riscuotendo i crediti vantati, sia intraprendendo nuove operazioni commerciali”.
In tutto ciò Lipani si giustificava dicendo che le sue condotte «sono state frutto di un momento di grave squilibrio mentale causato dagli attacchi ingiustamente subiti nello svolgimento del suo lavoro a partire dal 2011 da chi gestiva le amministrazioni di beni sottoposti a misure di prevenzione, ossia l’avvocato Gaetano Cappellano Seminara e la dottoressa Silvana Saguto».
LA CALCESTRUZZI BELICE
Il dossier affronta anche la vicenda della Calcestruzzi Belice, come esempio di quanto sia difficile per un’azienda che entra nel circuito della legalità riuscire a resistere.
La società nasce nel 1969 e si sviluppa negli anni successivi al terremoto del Belice utilizzando due cave tra loro contigue. Trascorrono quasi quarant’anni e nel 2008 i proprietari dell’azienda di Montevago, Rosario e Vitino Cascio, vengono arrestati nell’operazione antimafia “Scacco Matto”. L’azienda è florida, il materiale prodotto tra i migliori che si trovino in Sicilia, le due cave hanno un potenziale estrattivo di almeno otto milioni di metri cubi: con un’oculata gestione, può bastare a dare lavoro per i prossimi cinquant’anni. Insomma, le premesse per tenere in vita l’azienda tolta alla mafia trapanese ci sono tutte. Nei due anni successivi al sequestro vengono stipulati due importanti contratti di fornitura di calcestruzzi con l’Agrigento Consortile s.r.l. e con la Calcestruzzi s.p.a. di Bergamo, entrambe impegnate nei lavori di raddoppio della strada statale 640 Agrigento-Caltanissetta. Nel 2012 la situazione improvvisamente precipita. A luglio viene meno la commessa con la Agrigento Consortile, che rinuncia all'appalto della s.s. 640. Nel marzo dell’anno successivo salta anche la fornitura con l’altra impresa, la Calcestruzzi s.p.a. di Bergamo, che decide di servirsi esclusivamente di un'altra cava sempre in amministrazione giudiziaria e tra l’altro gestita dal medesimo amministratore. Due aziende concorrenti, sullo stesso territorio e nello stesso settore; identico l’amministratore per entrambe; una delle due perde l’appalto a vantaggio dell’altra: eppure di questo manifesto conflitto d’interessi in Tribunale nessuno si accorge.
Nel 2016, quando arriva la confisca definitiva e passa sotto il controllo dell’A.N.B.S.C., l’azienda è ormai alle corde. Il colpo di grazia arriva con una sentenza del Tribunale di Sciacca che decreta il fallimento della società su istanza presentata dall’ENI per un debito presunto di circa 27.300 euro: un’inezia, rispetto ai flussi di fatturato complessivi, 1,2 miliardi di euro l’anno. In tutto ciò l’amministrazione giudiziaria è composta da nove soggetti, tra amministratori e consulenti (a fronte di 11 dipendenti) da retribuire generosamente (500 mila euro l’anno!). All’inizio del 2017 la sorte della Calcestruzzi Belice, come accade per buona parte delle aziende siciliane confiscate, sembra ormai segnata. Gli unici a non darsi per vinti sono loro, i lavoratori dell’azienda: si mobilitano e per sei mesi organizzano un presidio davanti alla cava. nel luglio del 2017, quando finalmente la corte d’appello di Palermo annulla il decreto di fallimento, i lavoratori vengono riassunti, grazie anche ad un accordo sottoscritto dal Ministero dell’Interno. Gli operai si sono intanto riuniti in una cooperativa e si profila la possibilità di concedere loro in comodato gratuito i beni della Calcestruzzi.
LA CALCESTRUZZI ERICINA LIBERA
Un percorso molto accidentato anche quello della Calcestruzzi Ericina. Una vicenda particolarmente significativa, anche se piuttosto isolata nel panorama delle aziende siciliane confiscate alla mafia. Ci racconta di un’azienda sequestrata, poi confiscata ma destinata – per ostilità del mercato, incurie istituzionali e accanimento mafioso – ad essere cannibalizzata a vantaggio di altre aziende del ramo.
La cooperativa Calcestruzzi Ericina Libera nasce nel 2008 sulle ceneri della vecchia azienda attiva dal 1992 a Trapani nel settore dei materiali di costruzione e della produzione di calcestruzzo. Il percorso della nuova azienda incomincia tra il 1994 ed il 1996 quando, accertato che la Calcestruzzi Ericina appartenesse al clan mafioso di Virga, si procedette al sequestro preventivo delle quote societarie. In realtà il controllo mafioso della Calcestruzzi Ericina srl, con alterne vicende, durò anche dopo il 1994, terminando solo con la confisca definitiva nel giugno del 2000.
Ma la confisca definitiva non risolve i problemi della Calcestruzzi Ericina. Esclusa definitivamente dal controllo dell’azienda confiscata, la mafia tenta comunque di portare al fallimento l’azienda per potersene spartire le spoglie. Se quell’operazione non andò in porto, il merito fu soprattutto dell’allora prefetto di Trapani, Fulvio Sodano, che ha fronteggiato in maniera esemplare il tentativo della mafia di riprendersi, sotto false spoglie, l’azienda. Sodano, poi, fu trasferito. Fra gli ultimi suoi scritti, una accorata lettera in cui ricorda l’impegno profuso nella provincia di Trapani: “Fu allora – scrive - che compresi che lo Stato non sempre stava dalla parte dello Stato”.
Da dieci anni la Calcestruzzi Ericina Libera rappresenta una delle realtà più positive in Italia, il segno concreto che un riscatto sia possibile, anzitutto nel segno della tutela dei lavoratori. Ma non tutto va bene, come racconta Mammo Zagarella, amministratore delegato della Calcestruzzi Ericina Libera. “Ormai siamo un po’ stanchi di raccontare la storia come buona pratica… dal 2011, abbiamo la gestione come cooperativa e in questi dieci anni abbiamo avuto l’impressione che quando nei tavoli istituzionali andiamo a rappresentare quelle che sono le problematiche della gestione, è come se fossimo un elemento di disturbo… Mi riferisco, ad esempio, al mancato confronto con l’Agenzia dei beni confiscati: è dal 2014 che scriviamo all’Agenzia per alcune problematiche e non abbiamo nessun risultato”.
La Calcestruzzi Ericina Libera ha vissuto sulla sua pelle lo “shock” da legalità.
“Noi operiamo in un settore particolare, perché quello dell’edilizia è un mercato molto viziato, quindi stare sul mercato riesce molto difficile… perché è un settore dove è molto semplice riuscire a lavorare non rispettando la norma. E noi che andiamo a rispettare tutte le normative paghiamo praticamente il pegno, perché non riusciamo ad essere concorrenziali, perché invece chi riesce a fare prezzi fuori mercato riesce a lavorare…” spiega Zagarella.
L’amministratore della Calcestruzzi Ericina Libera nella sua audizione in commissione Antimafia spiega con chiarezza dove sta il problema, qual è la concreta lotta alla mafia.
“Fin quando non si prenderà la consapevolezza che la vera lotta di contrasto alla criminalità organizzata non si ferma al sequestro e alla confisca, ma la vera lotta sono le aziende che continuano a lavorare, affidate alle cooperative, che continuano a lavorare e a creare economia pulita... Ecco, è quello il vero contrasto alla criminalità!”.
LA GESTIONE DEI BENI E IL CASO CONSORZIO
Un altro aspetto che viene analizzato nell’inchiesta della commissione Antimafia è quello legato alle modalità di gestione dei beni immobili definitivamente confiscati, ed in particolar modo di quelli affidati agli enti locali. Sono molto interessanti le anomalie riscontrate in provincia di Trapani, anche per quanto riguarda il ruolo degli enti locali e del Consorzio Trapanese per la Legalità e lo Sviluppo.
In provincia di Trapani insistono 592 immobili confiscati. Di questi 43 sono mantenuti al patrimonio indisponibile dello Stato e ad assegnati ad amministrazioni statali per fini istituzionali. 549 sono stati assegnati al patrimonio indisponibile di enti territoriali ed in particolare 543 risultano assegnati ai Comuni, 34 alle Forze dell’ordine, 7 a varie amministrazioni statali, 6 alla Regione. Sull’utilizzo dei beni è stato sentito il prefetto di Trapani Tommaso Ricciardi: “Da una prima analisi emerge un consistente numero di beni che restano inutilizzati… La criticità è riconducibile al fatto che spesso e volentieri questi beni necessitano di ingenti interventi di manutenzione o di adeguamento e questo comporta che la ciclica proposizione di bandi vada deserta. Poi non si può non fare rilevare come spesso i comuni non dispongano di adeguate risorse finanziarie da destinare al ripristino e alla valorizzazione di questi beni confiscati”.
Il dato riferito dal prefetto Ricciardi trova purtroppo conferma nel bilancio ritenuto nel dossier “assai poco produttivo del Consorzio Trapanese per la legalità e lo sviluppo”. Nato nel 2005: undici comuni aderenti ed un solo bene affidato. In commissione è stata sentita l’ex direttore del Consorzio Antonella Marascia, che ha terminato il suo incarico qualche settimana fa. L’unico bene assegnato è proprio il locale in cui ha sede il Consorzio, a Castelvetrano. La situazione è paradossale per quanto riguarda gli altri beni. Assegnati ai comuni, che hanno ritenuto di non riassegnarli al Consorzio, ma gli stessi Comuni hanno difficoltà a pagare le quote annuali al Consorzio. Ed è proprio il Comune di Castelvetrano ad avere il maggior numero di beni assegnati. Lo stesso Comune che, come ha riferito Marascia, rischia di uscire dal Consorzio perchè da diversi anni ha difficoltà a pagare le quote. “Gli ultimi tre anni la quota di Castelvetrano se l’è accollata l’assemblea”, quindi gli altri comuni.
Poi l’ex responsabile del Consorzio spiega così i rapporti con la prefettura. “ Noi abbiamo, all’interno del CdA un componente del Consiglio di amministrazione nominato dal Prefetto, ma fino ad oggi non ho visto nessuna interazione tra noi e la Prefettura… Come direttore non sono mai stata convocata, diciamo che ci sentiamo col Prefetto, ci conosciamo…”.
Ma lo stato dell’arte, in questo momento, del Consorzio trapanese per la Legalità e lo Sviluppo, lo spiega il prefetto Ricciardi: “Confermo, in questo momento il Consorzio è un contenitore vuoto”.