di Sabrina Sciabica
Le cantine Florio sorgono di fronte al mare in un edificio che era, anticamente, una tonnara. Un aroma sapido accompagna il turista che varca l’antico portone e si mischia, poi, con l’odore dolce che si espande nelle navate di tufo dove, in botti di rovere, riposa uno dei prodotti italiani più famosi al mondo.
In questi luoghi incantati è nato il Marsala, e chi meglio di un siciliano potrebbe raccontarci come e quando?
Lo ha fatto Vittorio Lo Jacono ne La storia del Marsala. Dai mercanti inglesi ad oggi.
La casa editrice, Spazio Cultura Edizioni, è anch’essa siciliana e si sta distinguendo, in questi mesi particolari, per le innumerevoli iniziative online attraverso le quali ricorda la necessità di sostenere la cultura.
A metà tra testo storico e saggio, ogni capitolo del libro ripercorre le vicende delle dinastie che hanno prodotto e commercializzato il pregiato vino liquoroso.
Prima di presentarci i Woodhouse, gli Ingham, i Florio e le altre, il testo si apre con un capitolo dedicato alle origini della città, risalenti ai primi secoli avanti Cristo, quando la popolazione in fuga dalla piccola isola in cui risiedeva la colonia fenicia di Motya si riversò sulla terra ferma. Così si formò il primo insediamento che, nei secoli successivi, gli arabi chiamarono Marsa Allah, ovvero Porto di Dio.
E furono proprio i fenici, ci racconta Lo Jacono, a introdurre la coltivazione della vite in questi territori finché, nel 1774, John Woodhouse decise di rivendere il vino locale perché i vini invecchiati in perpetuum – cioè unendo del vino giovane al vecchio quando se ne spillava la parte da consumare – erano richiestissimi nel nord Europa. Eppure il viaggio sarebbe stato lungo, quindi l’inglese decise di unire dell’alcol al prodotto acquistato, in modo da conservarlo meglio, e il risultato fu il prodotto squisito che conosciamo.
La storia del Marsala si declina attraverso la narrazione di lungimiranti uomini d’affari e geniali commercianti. E, in alcuni casi, si tratta di quegli imprenditori illuminati, mecenati e appassionati d’arte, che hanno rappresentato un vanto per il meridione. Non mancano aneddoti che mostrano il lato umano di questi personaggi.
Dalle parole dell’autore ci sembra proprio di vederla, l’elegante Donna Franca – la celebre moglie di Ignazio Florio Junior – che «Usciva di casa con la sua carrozza per portare aiuti e soccorsi ai poveri della città di Palermo, senza i clamori di alcun mezzo mediatico». Tanto bella quanto ritardataria…le fece notare scherzosamente la signora Tina Whitaker che la aspettò due ore per un cocktail alla sua villa.
E che dire della meno conosciuta ma altrettanto intrigante figura di Delia Whitaker, la figlia di Joseph, chiamato Pip. L’autore ci racconta che il padre fu – oltre che produttore ed esportatore di Marsala – studioso di ornitologia e di archeologia. Proprio a lui si deve l’inizio degli scavi e la scoperta di Motya, dopo aver comprato l’isola di San Pantaleo. La figlia proseguì tenacemente i suoi studi e le indagini archeologiche che portarono, poi, alla luce la statua del Giovinetto, attualmente esposto al museo che porta il nome della famiglia. Si prese cura di Villa Malfitano a Palermo e creò l’attuale Fondazione Whitaker.
Grazie alla scrittura avvincente di Lo Iacono, le pagine scorrono piacevolmente, arricchite da foto, cartine e manifesti pubblicitari dell’epoca. E ci sembra quasi di essere lì, in quella vivace Sicilia di fine Ottocento.
Il vino, infatti, è soltanto uno dei protagonisti di questo libro, fortemente consigliato a chi ha voglia di intraprendere un viaggio in un passato in cui fiorivano, parallelamente ai commerci, attività artistiche e ricreative, incontri e scambi culturali di livello internazionale.
«I Florio avevano creato oltre 20.000 posti di lavoro», oltre che aver donato al comune di Palermo cifre notevoli per iniziare la costruzione del Teatro Massimo, capolavoro dello stile Liberty.
Si rimarrà affascinati dalla lettura e non si potrà che rimpiangere quel periodo d’oro in cui la borghesia progressista faceva la storia, perché la ricchezza produceva innovazione, l’economia e la cultura sembravano avere lo stesso valore e si sostenevano a vicenda, a vantaggio dell’intera popolazione.