Il nome nuovo sulla bocca di tutti, nel giro dell'antimafia, è quello di Maurizio Avola. Killer di mafia, non pentito, è protagonista del libro che segna il ritorno di Michele Santoro.
"Non so bene perché ho deciso di incontrare uno che ha ucciso ottanta persone. Guardo Avola e ho la sensazione di trovarmi davanti uno specchio nel quale comincio a riconoscere tratti che sono anche i miei. Inizio a seguirlo in un labirinto di ricordi", dice Michele Santoro.
Maurizio Avola è stato il killer perfetto di Cosa Nostra. Un uomo diventato indispensabile per portare a termine i piani criminali dei boss. Non solo: ha conosciuto Matteo Messina Denaro e assieme all’ultimo padrino ha compiuto diverse azioni. E' così che nasce “Nient’altro che la verità”, libro-inchiesta scritto con Guido Ruotolo.
Si parla molto di Messina Denaro, nel racconto di Avola, a cominciare dall'omicidio, a Campo Calabro, del giudice Antonino Scopelliti. Secondo Avola Cosa nostra stava preparando “colpo di Stato”. È ciò di cui è convinto Avola.
Avola non aveva mai sentito parlare prima del magistrato, ma è convinto che tutto giri attorno al maxi processo, perché «fino ad allora» era possibile aggiustare le sentenze e l’intervento di Falcone lo avrebbe reso impossibile.
Cosa Nostra arriva a conoscere la strategia sul maxi processo perché Salvo Lima, il parlamentare democristiano, «lo dice ai massoni; i massoni del Trapanese lo dicono a Matteo (Messina Denaro, ndr); e Matteo lo dice a Riina. Sono cose che arrivano sussurrate». È questo, per il killer, il filo attraverso il quale «si arriva a Scopelliti», destinato – secondo le informazioni raccolte dagli uomini di Cosa Nostra – alla Cassazione nel maxi processo.
L’eliminazione del giudice calabrese viene decisa dal “capo dei capi”. Partecipa alla logistica un pezzo della famiglia Santapaola. L’azione di fuoco – la base dell’operazione è Messina – avviene sotto la supervisione di Messina Denaro. L’appuntamento è a Reggio Calabria. Lì Messina Denaro ed Eugenio Galea, rappresentante della famiglia Santapaola, si sarebbero incontrati al porto con il gruppo di fuoco. E si sarebbero allontanati «per incontrare chi gli deve fornire le informazioni fondamentali. In pieno agosto può essere un conoscente che sta facendo le vacanze vicino a Scopelliti».
È necessario che gli assassini conoscano il percorso dell’auto del giudice. Serve che qualcuno offra le informazioni richieste a «Matteo». Chi è stato? Per Avola si tratta di «uno delle istituzioni, un massone, uno dei tanti massoni calabresi con cui Matteo stava in contatto. Una persona importante».
Nel corso dell’intervista di Michele Santoro andata il 28 aprile su La 7 Avola ha affermato di aver partecipato, insieme a Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Aldo Ercolano ed altri, alla fase esecutiva della strage di Via D’Amelio del 19 luglio 1992, in cui morirono il giudice Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.
Si tratta, dobbiamo dirlo, di una trasmissione che è stata molto claudicante, con parecchi errori, grossolana.
"Io posso dire che c'ero e sono uno degli esecutori materiale della strage di via D’Amelio. E sono l'ultima persona che ha visto lo sguardo di Paolo Borsellino prima di dare il segnale per l’esplosione" ha detto l’ex killer Maurizio Avola intervistato da Michele Santoro nello speciale di Mentana sulla mafia su La7. "Borsellino scende dalla macchina e lascia lo sportello aperto - dice Avola - Io mi fermo, mi giro e lo guardo, mi accendo una sigaretta. Lo guardo, mi giro e faccio il segnale, verso il furgone a Giuseppe Graviano e vado a passo elevato - dice Avola - Mi da 12 secondi per allontanarmi. Ho avuto la sensazione che Emanuela Loi ha visto il led rosso dell’auto, lei alza il passo e non capisco se sta andando verso la macchina. A quel punto mi sono allontanato. Se non esplodeva la macchina avrebbero attaccato con i bazooka".
E aggiunge: "Il nostro ottavo uomo era lo Stato - aggiunge - non i servizi segreti. Hanno fatto una ricostruzione diversa, posso giurare che non c'erano uomini dei servizi. Io dovevo fare la guerra allo Stato".
La macchina che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino, una 126, "è stata imbottita da due persone, io e un’altra persona. I panetti toccavano pure il seggiolino dell’auto. Erano dodici panetti di esplosivo in tutto", ha ricordato Avola. "Già sapevo che dovevamo colpire un magistrato - racconta - Io già il tipo di esplosivo da usare lo conoscevo. E conoscevo anche la tecnica".
"Durante la settimana dell’attentato sono salito a Palermo diverse volte - aggiunge - C'erano Giuseppe Graviano ma anche Matteo Messina Denaro. E poi i ragazzi Fifetto Cannella e Renzino Tinnirello".
Nel garage in cui venne preparato la 126 che il 19 luglio 1992 uccise Paolo Borsellino e cinque agenti della scorta, "non c'erano agenti dei servizi segreti, ma solo killer e boss di Cosa nostra" ha assicurato il collaboratore di giustizia catanese. Era stato il pentito Gaspare Spatuzza a parlare di un uomo dei servizi segreti nel garage, ma oggi Avola lo smentisce e dice: "Spatuzza ha visto solo Aldo Ercolano, ma lui non era un esecutore materiale e non può sapere i retroscena", dice Avola. "Credo che dica la verità ma quello che ha visto nel garage non è dei servizi segreti, ero io o Aldo Ercolano".
La circostanza risulta in effetti essere stata riferita per la prima volta da Avola nel corso di un interrogatorio svoltosi lo scorso anno dinanzi a magistrati della Direzione distrettuale antimafia di Caltanissetta, a distanza di oltre 25 anni dall’inizio della sua collaborazione con l’autorità giudiziaria. Ma, come sottolinea in una nota il procuratore aggiunto Gabriele Paci, “i conseguenti accertamenti, finalizzati a vagliare l’attendibilità di dichiarazioni riguardanti una vicenda ancora oggi contrassegnata da misteri e zone grigie, non hanno, allo stato, trovato alcuna forma di positivo riscontro che ne confermasse la veridicità”.
“Dalle indagini demandate alla Dia – continua Paci – sono per contro emersi rilevanti elementi di segno contrario che inducono a dubitare tanto della spontaneità quanto della veridicità del suo racconto. Per citarne uno, tra i tanti, l’accertata presenza dello stesso Avola a Catania, addirittura con un braccio ingessato, nella mattinata precedente il giorno della strage, là dove, secondo il racconto dell’ex collaboratore, egli, giunto a Palermo nel pomeriggio del venerdì 17 luglio, avrebbe dovuto trovarsi all’interno di un’abitazione sita nei pressi del garage di via Villasevaglios, pronto, su ordine di Giuseppe Graviano, a imbottire di esplosivo la Fiat 126 poi utilizzata come autobomba”.
“Colpisce peraltro che Avola – prosegue il procuratore Paci – anziché mantenere il doveroso riserbo su quanto rivelato a questo ufficio, abbia preferito far trapelare il suo asserito protagonismo nella strage di Via D’Amelio, oltre a quello di Messina Denaro, Graviano ed altri, attraverso interviste e la pubblicazione di un libro”.
“E lascia altresì perplessi che egli abbia imposto autonomamente una sorta di “discovery”, compromettendo così l’esito delle future indagini, dopo che l’ufficio aveva provveduto a contestargli le numerose contraddizioni del suo racconto e gli elementi probatori che inducevano a dubitare della veridicità di tale sue ennesima progressione dichiarativa”, conclude il Procuratore aggiunto di Caltanissetta.
Anche Fiammetta Borsellino, intervenuta ieri allo speciale di La7 è perplessa di fronte alle dichiarazioni del mafioso catanese. «Le parole di Maurizio Avola? Qualsiasi dichiarazione deve essere oggetto di riscontro, già di depistaggio ne abbiamo subito uno e ancora ci lecchiamo le ferite».
«La sentenza di Scarantino (sul depistaggio ndr) è diventata definitiva appena pochi giorni fa. Sto molto cauta e penso che ogni dichiarazione debba essere oggetto di un riscontro», ha aggiunto.