Domani, domenica 12 giugno, dalle 7 alle 23, gli italiani sono chiamati alle urne per cinque quesiti referendari che riguardano il tema della giustizia: si va dalla legge Severino alle misure cautelari, dalla separazione delle carriere alla valutazione sui magistrati e alle elezioni per il Csm. Ecco cosa c’è da sapere.
I quesiti referendari sono cinque, ma si può scegliere di votare anche solo per uno di essi. Ecco una breve spiegazione su cosa si vota scegliendo il sì o il no.
Deve votare “sì” chi è d’accordo a cambiare l’attuale legge e deve votare “no” chi invece vuole mantenere le cose così come sono ora. Ogni quesito, per essere valido, deve raggiungere il quorum: vuol dire che deve votare la metà più uno degli aventi diritto (50%+1). Per esprimere il proprio voto è necessario andare alle urne con un documento d'identità e la tessera elettorale.
1° quesito rosso - Incandidabilità in caso di condanna - Il primo quesito chiede ai cittadini se vogliono cancellare la Legge Severino, quella cioè che prevede l'incandidabilità e la decadenza automatica per parlamentari e membri del governo, nel caso di condanna definitiva per reati gravi contro la pubblica amministrazione, e fissa un regime rigido anche per gli amministratori locali che decadono dal loro ruolo anche in caso di condanna di primo grado (quindi non definitiva). Con la vittoria del sì tornerebbe in vigore la legge precedente che prevede l'interdizione dai pubblici uffici come pena accessoria decisa dal giudice ma non dunque automatica come invece precede la legge Severino.
Per il referendum numero 1 si vota sulla scheda di colore rosso. Riguarda l’abrogazione del Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi.
Se vince il “sì”, il decreto vene abrogato e cade l’automatismo: vuol dire che in caso di condanna spetterà al giudice decidere di volta in volta se applicare o meno anche l’interdizione dai pubblici uffici. Se vince il “no”, rimane l’incandidabilità, l’ineleggibilità e la decadenza automatica per i politici condannati
2° quesito referendario arancione - Per il referendum numero 2 si vota sulla scheda di colore arancione. Il tema è la limitazione delle misure cautelari: riguarda l’abrogazione dell'ultimo inciso dell'art. 274, comma 1, lettera c), codice di procedura penale, in materia di misure cautelari e, segnatamente, di esigenze cautelari, nel processo penale.
Il secondo quesito sulla limitazione delle misure cautelari punta a eliminare "la reiterazione del reato" dai motivi per cui è possibile disporre la custodia cautelare, cioè la detenzione degli indagati o imputati durante le indagini o prima della sentenza definitiva. Nel caso di vittoria del sì non sarebbe più possibile ricorrere alla misura cautelare - per i soli reati non violenti - qualora esista il pericolo che l’imputato possa ripetere quello stesso tipo di reato. Se invece vincono i no il ricorso al carcere preventivo continuerebbe a essere consentito oltre che nel caso di pericolo di fuga e inquinamento probatorio, anche nel caso di pericolo di reiterazione del reato.
Se vince il “sì”, in alcuni casi e per reati considerati meno gravi, il pericolo della reiterazione del reato viene eliminato dai motivi per cui può essere richiesta una misura cautelare. L’arresto preventivo rimarrebbe – oltre che per i casi di pericolo di fuga e inquinamento delle prove – anche se c’è il rischio di commettere reati di particolare gravità, come quelli commessi con armi o altri mezzi violenti o di criminalità organizzata. Se vince il “no”, il pericolo della reiterazione del reato rimane tra i casi per cui è possibile chiedere una misura cautelare
3° quesito separazione delle funzioni - Per il referendum numero 3 si vota sulla scheda di colore giallo. Riguarda la separazione delle funzioni dei magistrati e, in particolare, l’abrogazione delle norme in materia di ordinamento giudiziario che consentono il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa nella carriera dei magistrati.
Con il terzo quesito si chiede agli italiani se intendono separare le funzioni tra magistrati e giudici puntando a rendere definitiva la scelta all'inizio della carriera di una o dell'altra funzione. In caso di vittoria dei sì si eliminerebbe la possibilità di passare dalla funzione di giudice a quella di pm e viceversa. Nel caso di vittoria dei no resterebbe in vigore la legge Mastella del 2007 che prevede al massimo 4 passaggi da una funzione all’altra, con l’obbligo però per il magistrato di cambiare regione. Se la legge Cartabia passasse così com’è anche al Senato i passaggi di funzione consentiti nel settore penale, entro i primi 10 anni di carriera, si ridurrebbero rispetto alla legge attualmente in vigore a uno solo.
Il quesito, in pratica, chiede se si è d’accordo o meno nell’introdurre nel sistema giudiziario italiano la separazione delle carriere. Al momento i magistrati possono passare fino a quattro volte dal ruolo di pubblici ministeri (che sono delle figure che svolgono la parte dell’accusa e coordinano le indagini svolte dalle forze dell’ordine) al ruolo di giudici (le figure che emettono le sentenze sulla base delle prove raccolte e del contradditorio tra l’accusa e la difesa).
Se vince il “sì”, viene introdotta la separazione delle carriere e i magistrati dovranno scegliere all’inizio del loro percorso lavorativo se assumere nel processo il ruolo di giudice (funzione giudicante) o quello di pubblico ministero (funzione requirente): poi dovranno mantenere quel ruolo per tutta la loro vita professionale. L’unica possibilità di cambio rimarrebbe per i giudici, che potrebbero passare dai tribunali penali a quelli civili. Se vince il “no”, i magistrati potranno continuare a cambiare ruolo nel corso della loro carriera.
Chi sostiene il “sì” ritiene che separare le carriere possa essere garanzia di una maggiore imparzialità dei giudici: i promotori del “sì”, infatti, ritengono che i magistrati per tutta la loro vita professionale dovrebbero solo o “accusare” o “giudicare”, mentre passare da un ruolo all’altro - ruoli che nel processo devono essere distanti - potrebbe confondere e rappresentare un rischio per il sistema democratico. Chi sostiene il “no”, invece, ritiene che separare le carriere non sarebbe comunque una mossa efficace visto che altri aspetti - come la formazione, il concorso per accedere alla magistratura e gli organi di autogoverno dei magistrati - resterebbero in comune. Inoltre, i promotori del “no”, temono che i pm potrebbero essere sottoposti a un maggiore controllo da parte del governo e isolati, senza possibilità di ampliare il proprio bagaglio professionale svolgendo altre funzioni
4° quesito referendario, si vota sulla scheda di colore grigio. Riguarda la partecipazione dei membri laici a tutte le deliberazioni del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari. In particolare, il tema è l’abrogazione di norme in materia di composizione del Consiglio direttivo della Corte di cassazione e dei consigli giudiziari e delle competenze dei membri laici che ne fanno parte.
Il quesito, in pratica, chiede se si è d’accordo o meno a permettere di partecipare alla valutazione sui magistrati - oltre che alle toghe - anche ad altre figure di esperti nella materia giuridica. Al momento, in Italia i magistrati vengono valutati ogni 4 anni dal Cms, che decide sulla base delle valutazioni fatte anche dai Consigli giudiziari: in questi organi territoriali, oltre che magistrati, ci sono anche avvocati e professori universitari di diritto ma solo i magistrati possono votare nelle valutazioni professionali dei loro colleghi.
Se vince il “sì”, viene quindi abrogato il divieto di voto dei membri laici nei Consigli giudiziari: anche altre figure diverse dalle toghe - come avvocati e professori universitari che fanno parte di questi Consigli - potranno votare riguardo all’operato, alla competenza e alla professionalità dei magistrati. Si estenderebbe anche ai rappresentanti dell’Università e dell’Avvocatura, quindi, la possibilità di esprimere valutazioni. Se vince il “no”, le cose restano come sono e le valutazioni rimangono a carico dei magistrati.
Chi sostiene il “sì” ritiene che la magistratura, con questa modifica, sarebbe meno autoreferenziale e che la valutazione dei magistrati diventerebbe più oggettiva ed equilibrata.
Chi sostiene il “no”, invece, ritiene che non sia giusto permettere a soggetti esterni di valutare i magistrati. In particolare, i sostenitori del “no” ritengono improprio permettere agli avvocati di giudicare i magistrati, dato che nei processi i pm rappresentano la loro controparte e le valutazioni potrebbero essere ostili o viziate da contrasti professionali. Inoltre, un magistrato, aggiungono, potrebbe essere in soggezione nei confronti di un avvocato durante un processo.
Per il 5° referendum si vota sulla scheda di colore verde - Il tema è l’abrogazione di norme in materia di elezioni dei componenti togati del Consiglio superiore della magistratura. In particolare, si chiede l’abrogazione della legge 24 marzo 1958, n. 195 (“Norme sulla costituzione e sul funzionamento del Consiglio superiore della magistratura”) nella parte che prevede l’obbligo di raccogliere da 25 a 50 firme per potersi candidare come membri dell’Organo di autogoverno della magistratura.
Il quinto e ultimo quesito del referendum riguarda la legge elettorale del Consiglio Superiore della Magistratura e chiede agli aventi diritto al voto di eliminare l'obbligo di raccogliere tra 25 e 50 firme per i magistrati che vogliono candidarsi al Csm. Se vincessero i sì ogni magistrato che volesse candidarsi al Consiglio Superiore della Magistratura non avrebbe più l’obbligo di raccogliere le firme di colleghi che lo sostengono. Questa norma, nelle intenzioni dei promotori del referendum, dovrebbe servire a ridurre il peso delle correnti all’interno del Csm.
Se vince il “sì” si potrà presentare la propria candidatura senza l’obbligo di trovare almeno 25 firme. Si tornerebbe, quindi, alla legge originale del 1958: prevedeva che tutti i magistrati in servizio potessero proporsi come membri del Csm presentando semplicemente la propria candidatura. Se vince il “no”, l’obbligo delle firme rimane.