C’erano più di 100 stanze ed eravamo soltanto 6 persone… Quando l’albergo aveva tutte le stanze occupate dai turisti, noi dormivamo per terra, mettevamo dei materassi vicino l’ascensore. Per questo chiamavo Luca, dicendo che volevo andare via. Luca mi diceva che sarebbe venuto l’indomani a prendermi; quando è venuto era in compagnia di Monica, che aveva portato Vivian un’altra ragazza del mio campo, di cui ho parlato, a sostituirmi. Io sono ritornata al mio centro insieme a Monica, con la sua autovettura.
A parlare è una ragazza nigeriana sentita dalla procura, una delle tante che il consorzio Diadema, da cui prende il nome l’operazione di polizia di qualche giorno fa, offriva come schiave del pulito ad almeno 26 alberghi di Palermo e ad uno di Castelvetrano. Luca e Monica fanno parte delle 5 persone che sono finite agli arresti domiciliari.
Il primo è Luca Fortunato Cardella, presidente della cooperativa Eco Group, società consorziata nel Diadema Consorzio Stabile. Si occupava di reclutare i lavoratori extracomunitari presso i centri di accoglienza “La mano di Francesco” di Roccamena, “Donne Nuove” di Palermo e “opera Pia Riccobono” di San Giuseppe Jato. Lavoratori che poi offriva, sottolineano gli inquirenti, in condizioni di sfruttamento agli alberghi per i servizi di pulizia.
La seconda è Monica Torregrossa, che le lavoratrici nigeriane chiamano “Big Mama Monica”, moglie del maresciallo Fabio Caravello, oggi in servizio ad Alcamo, trasferito da Camporeale e ancor prima da Roccamena, dove Big Mama è responsabile del centro di accoglienza “La mano di Francesco”. Anche lei si occupava del reclutamento delle ragazze da avviare all’attività di pulizia e alla sistemazione delle strutture ricettive gestite dal consorzio Diadema. Un’intensa attività, gestita soprattutto attraverso gruppi whatsapp, con un numero di cellulare intestato al marito.
Sin dal principio delle indagini, scrive la procura, emergeva che la Torregrossa, “pur essendo pienamente consapevole dello stato di bisogno delle ragazze ospiti del centro di accoglienza, e dell’approfittamento delle loro condizioni da parte dei vari datori di lavoro, non esitava ad attivarsi per reclutare forza lavoro, per dirimere eventuali problematiche insorte in caso di lamentele delle ragazze sfruttate, per predisporre appositi propri servizi di accompagnamento presso i posti di lavoro, nonché di favorire l’utilizzo fraudolento di strumenti d’inserimento nel mondo del lavoro, in modo da consentire un risparmio di spesa per i gestori delle aziende consorziate”.
C’è però una circostanza di qualche anno fa, che oggi può essere vista con occhi differenti.
Il deputato leghista Alessandro Pagano, nel 2020, aveva chiesto in un’interrogazione parlamentare alla Lamorgese, se allo Sprar di Roccamena ci si trovasse di fronte ad un caso di “parentopoli”. Pagano aveva parlato di un esposto presentato da una donna della cittadina, vedova e con un figlio disoccupato (con i titoli di mediatore culturale), che aveva denunciato che all’interno dello Sprar venivano assunti soltanto parenti degli allora amministratori comunali, assessori e consiglieri, nonché la moglie dell’ex comandante della stazione locale dei Carabinieri (proprio lei, Monica Torregrossa), chiedendo chiarimenti alle autorità locali di pubblica sicurezza e segnalando alle istituzioni la situazione del figlio perché potessero dare qualche sostegno. I chiarimenti erano arrivati insieme ad una denuncia per calunnia da parte del sindaco (poi archiviata).
L’operazione Diadema di qualche giorno fa, non ha riguardato nessuna “parentopoli”, ma qualcosa di peggio: lo sfruttamento delle ragazze nigeriane. Al quale avrebbe partecipato, secondo la procura, anche Big Mama Monica Torregrossa.
“Monica mi riferiva di aver saputo da Luca che siccome le ragazze di Roccamena erano tante, non poteva più pagare questo titolo di viaggio - racconta una delle tante ragazze nigeriane sentite a sommarie informazioni - che avremmo dovuto pagare noi, prendendo i soldi dalla paga mensile ed io allora dicevo a Monica che non sarei potuta andare. Allora Monica aveva una brutta reazione. Mi diceva che neanche lei era stata pagata per il suo lavoro, che io volevo soltanto mangiare e dormire, che i soldi per mangiare e dormire li metteva lei e che se io non fossi andata a lavorare avrebbe scritto cose brutte su di me alla commissione di Trapani, che non mi avrebbe dato la protezione internazionale; così mi avrebbe cacciata dal centro. Io le dicevo che Luca in quei due mesi non mi aveva ancora pagato e Monica mi diceva che non le interessava, che io avrei dovuto continuare a lavorare e che Luca prima o poi mi avrebbe pagato”.
Le più “fortunate”, scrivono ancora gli investigatori, “potevano disporre di un contratto di lavoro part-time di 6/20 ore settimanali, ma lavoravano 8, 10 o anche 12 ore al giorno, per tutti i giorni, con una retribuzione di circa 400,00 euro mensili che veniva corrisposta sempre in ritardo e soltanto a seguito delle loro insistenti richieste”.
Altro che parentopoli.
Egidio Morici