Continuiamo il nostro racconto, per sommi capi (è una vicenda davvero complessa) dei fatti che hanno portato alla condanna per concorso esterno in associazione mafiosa per l'ex senatore e sottosegretario Antonio D'Alì. Si tratta di un'operazione di ricostruzione che riteniamo necessaria, dato che, alla luce della cattura di Messina Denaro, si è tornati a parlare del ruolo di D'Alì, con alcune inesattezze e un'informazione un po' superficiale.
Qui potete leggere la prima parte della nostra inchiesta.
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Nel processo D'Alì sono accadute molte cose. Innanzitutto c'è stato un ruolo molto importante della Cassazione, che ha annullato la precedente assoluzione, perché c'era una "cesura illogica" tra due periodi, prima e dopo il 1994. D'Alì era stato prescritto per i fatti anteriori a quell'anno e assolto per quelli posteriori.
Ma la Corte aveva anche indicato, con una decisione singolare, anche le persone che dovevano essere ascoltate nel nuovo processo, tra cui il discusso "collaboratore di giustizia" Antonino Birrittella (il virgolettato è d'obbligo dato che non è chiaro lo status di Birrittella) e l’ex economo della Diocesi di Trapani, don Ninni Treppiedi.
Nel processo poi entrano il trasferimento del Prefetto Sodano, secondo i giudici voluti da D'Alì ("ma in realtà Sodano durò nella sua carica nella media di tutti i Prefetti che si sono alternati a Trapani" dice la difesa), l'affare della Calcestruzzi Ericina, l'azienda confiscata al boss Vincenzo Virga che la mafia trapanese voleva portare al fallimento.
Ci sono anche vicende risalenti nel tempo, come la vendita del fondo di contrada Zangara, a Castelvetrano, ad Alfonso Passanante, prestanome di Totò Riina (verrà poi condannato per mafia). Il fondo era pervenuto in eredità a D'Alì nel '77 e il "sovrastante", cioè il campiere, era già Francesco Messina Denaro, padre di Matteo.
Secondo l'ex moglie di D'Alì, Maria Antonietta Aula (sposata con lui dal 1977) il fondo, di 35 ettari, fu ereditato alla morte del nonno di D'Alì. La coppia restaurò una piccola casa colonica, e si recava in quel fondo un paio di settimane l'anno durante il periodo della vendemmia e per la raccolta delle olive. Il sovrastante, dicevamo, era Francesco Messina Denaro. Racconta la signora: "Era colui che sovrintendeva alla vendemmia, organizzando il lavoro degli operai e gestendo le varie operazioni tecniche, alla nostra presenza. Ricordo che, per esempio, portava la bolletta dell'ammasso dell'uva e la consegnava a mio marito, quando non era mio marito stesso che direttamente la ritirava alla cantina Zangara, che si trovava vicinissima all'azienda e nella quale mio marito era membro del consiglio di amministrazione".
Il fondo fu venduto per ripianare dei debiti su investimenti sbagliati fatti dalla famiglia in Sardegna, nell'83. Della vendita, però, era stato fatto solo il contratto preliminare: in pratica D'Alì aveva ricevuto i soldi, ma non esercitava i diritti di proprietario. Quando, dopo il 1990 ci fu l'esigenza di formalizzare la vendita, però, Passanante era fuorigioco, perchè gravemente indiziato di mafia, e dunque il bene (che viene descritto come un "terreno molto esteso e di grandissimo valore") poteva essere sequestrato, per questa ragione si trovò un nuovo prestanome per Totò Riina: Francesco Geraci, gioielliere amico di Matteo Messina Denaro, da pochi giorni scomparso. Fu scelto Geraci, da Messina Denaro, perchè era l'unico dei suoi amici "pulito", cioè non aveva alcuna macchia nella fedina penale. L'atto di compravendita è del Dicembre 1992, e fu fatto dal notaio Barracco, a Mazara del Vallo. Racconta Geraci che tutta l'operazione fu gestita da Matteo Messina Denaro e lui intervenne solo all'atto della firma, e che il suo amico boss non gli riferì mai di rapporti tra i D'Alì e Cosa nostra (quest'ultima dichiarazione è, per l'accusa, il segno della genuinità delle sue dichiarazioni). Con una complessa operazione, a D'Alì furono corrisposti (per finta) 300 milioni di lire, ultima rata nell'Aprile del '94, che poi vennero restituiti a Matteo Messina Denaro. Geraci, insieme al fratello Andrea, ottenne i soldi per l'operazione, su indicazione sempre di Messina Denaro, da una finanziaria di Mazara, di "tale Gabriele Salvo". Era un conoscente del killer e capomafia Vincenzo Sinacori, ed era stato in passato "presidente della Cassa Rurale". Sinacori racconta che tra l'altro erano stati loro stessi a portare i soldi alla Finanziaria per "pulirli".
Ma torniamo a noi. D'Alì vende il terreno a Geraci, e poi a poco a poco, D'Alì restituisce i soldi che Geraci gli ha dato. Per l'accusa questa è una prova del sostegno di D'Alì alla famiglia Messina Denaro. Per la difesa dell'ex senatore, invece, D'Alì non sapeva nulla che dietro Geraci ci fosse Messina Denaro, cosa ammessa dallo stesso pentito. La difesa inoltre riporta la testimonianza di alcuni investigatori che avevano gli occhi puntati su Francesco Messina Denaro, latitante dal ’90 fino alla morte, nel '98, e non hanno visto "contatti, intercettazioni, nulla, tra D’Alì e taluno di questa famiglia, perché D’Alì non frequenterà più i terreni di Contrada Zangara e Castelvetrano dagli anni ’80 in poi. Nessuno dice di avere mai visto D’Alì in quella zona, mai accertato contatti di qualsiasi genere, personali, telefonici, tra D’Alì Antonio e soggetti appartenenti alla famiglia mafiosa dei Messina Denaro".
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