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13/07/2023 06:00:00

Boss e borghesia mafiosa, l'indagine a Palermo

 Un importante boss, dopo un lungo periodo di detenzione nel carcere ad alta sicurezza 41 bis, ritorna in auge nel cuore della città di Palermo. Salvatore Genova, erede del clan Madonia di Resuttana, può contare sull'appoggio di inaspettati complici. Un'operazione di polizia porta in custodia 18 persone, tra cui un professionista del settore finanziario, un notaio e tre imprenditori. Le intercettazioni hanno nuovamente svelato gli investimenti di Cosa Nostra in vari settori dell'economia cittadina. La pratica estorsiva del pizzo continua a stringere la presa, imposta dal boss sulle agenzie di pompe funebri che operano nell'area di Villa Sofia. Gli investigatori hanno registrato numerosi incontri tra capi di diversi clan. Dopo essere stato rilasciato dal carcere nel marzo 2019, Genova, il padrino di Resuttana e erede dei Madonia, ha ripreso rapidamente il controllo di Cosa Nostra una volta tornato a Palermo. All'inizio in modo discreto, ma poi in modo sempre più evidente. Senza remore, poteva contare sul supporto di individui insospettabili.

Cosa Nostra non si arrende, anzi, si rafforza. Le indagini hanno portato all'arresto di 18 persone. Oltre ai boss - tra cui spicca Genova come un rilevante scarcerato - sono stati coinvolti anche professionisti.

Il notaio Sergio Tripodo, accusato di tentata estorsione aggravata, è stato posto agli arresti domiciliari. In carcere sono finiti il commercialista Giuseppe Mesia e gli imprenditori Benedetto Alerio (accusati di associazione mafiosa), Giovanni Quartararo (concorso esterno in associazione mafiosa) e Agostino Affatigato (tentata estorsione aggravata). L'ordinanza di custodia cautelare ha anche determinato il sequestro preventivo delle società "Almost food srls" e "Gbl food srls", che gestiscono gli esercizi commerciali "Antica polleria Savoca dei fratelli Alerio" in piazza San Lorenzo 24/a e via Enrico Mattei 17/a, attività considerate completamente controllate dalla famiglia mafiosa di Resuttana.

L'inchiesta descrive la venerazione che il clan nutre per il boss sessantacinquenne appena scarcerato. "Genova è tutto", così si diceva di lui. E vantavano il loro mandamento: "È una città". Anche il braccio destro di Genova, Salvatore Castiglione, un boss che ha trascorso molti anni dietro le sbarre, è tornato pienamente operativo dopo essere stato rilasciato nel 2012. Lo stesso vale per il cassiere della famiglia, Sergio Giannusa.

Un altro ritorno significativo è stato quello di Mario Napoli, liberato il 4 dicembre 2019, che si è immediatamente rimesso al lavoro all'interno di Cosa Nostra, come se il carcere non fosse mai stato un ostacolo per lui.

C'era anche un altro scarcerato, Settimo D'Arpa, che si mostrava molto arrogante, ma veniva ripreso dalla compagna: "Ti dico una cosa, fai l'astuto, perché non chiami tutti i mafiosi che conosci... te lo dico davanti a tutti". Lui cercava di difendersi: "Io non conosco nessun mafioso... Non conosco nessuno di questi mafiosi". Ma la compagna continuava a insistere: "Giuro su Dio, se ti vedo, dirò: 'L'ho lasciato perché chiedeva il pizzo'. Giuro che lo farò". E lui rispondeva: "Ti rendi conto di ciò che dici al telefono?". Lei sembrava determinata: "Sì, perché è la verità".

La discussione proseguiva in un'altra telefonata: "Non siamo a via Sciuti, non siamo a via Notarbartolo, dove facevi spaventare i commercianti. Qui stai parlando con una persona", diceva lei senza mezzi termini. "Hai capito? Stai parlando con una donna. Sì, stai parlando con una donna, non con un commerciante che vuoi intimidire... perché voi siete bravi solo a fare questo...". D'Arpa, frustrato, dichiarava: "Ti sto bloccando nelle telefonate e nei messaggi". Ieri mattina è stato arrestato con l'accusa di essere un estortore attivo del pizzo per conto del clan.

GLI AFFARI. Una situazione intricata si sviluppa nel settore delle onoranze funebri all'ospedale di Villa Sofia. Il clan mafioso di Resuttana mantiene un controllo serrato su ogni impresa che opera presso la camera ardente di via Croce Rossa, richiedendo il pagamento del pizzo come condizione essenziale per poter lavorare. Bastava anche un solo servizio funebre affidato a un'impresa non sottoposta al racket per scatenare l'allarme all'interno del clan.

Sergio Giannusa, braccio destro di Salvo Genova e nuovamente al comando del mandamento di Resuttana dopo la sua recente scarcerazione, si occupava del settore delle pompe funebri durante la sua detenzione. Genova gli aveva delegato il compito di gestire questo redditizio business, con l'ordine preciso di far pagare a tutti e di mettersi in contatto con la famiglia.

I fratelli Carlo e Giuseppe Pesco, titolari di un'azienda produttrice di cofani funebri, sono i protagonisti della vicenda presso Villa Sofia. Secondo i Pesco, alcuni nuovi arrivati non hanno ancora effettuato il pagamento richiesto. Quando Sergio Giannusa chiede loro se conoscono uno di questi individui, Carlo Pesco risponde che conosce sua figlia, poiché il padre è deceduto. Tuttavia, quando Giannusa gli domanda se ha pagato, la risposta è negativa.

Il clan di Genova e Giannusa tenta immediatamente di avvicinare la titolare dell'impresa. Il boss fissa un appuntamento presso l'ufficio delle onoranze funebri, ma la donna non si presenta. Per il clan, questo è considerato un grave oltraggio. È necessario un chiarimento immediato con la nuova azienda. Giannusa vuole far sentire il peso intimidatorio del clan, ma i Pesco lo mettono in guardia: "Stai attento, perché qui sono tutti 'carabinieri', tutti cornuti e sbirri". Tuttavia, Giannusa non è disposto a cedere facilmente. Preferisce correre dei rischi piuttosto che mostrarsi debole o rinunciatario agli occhi degli altri soggetti coinvolti nel racket.

La ribellione della titolare dell'impresa non è l'unico problema che affligge il clan. Un altro imprenditore cerca di sfuggire al racket. Il clan di Resuttana lo sottopone a continue pressioni e richieste di pagamento, ma l'uomo fatica a far fronte alle richieste e cerca di evitare gli appuntamenti, facendo tutto il possibile per ritardare i versamenti. In una telefonata, l'esattore del pizzo comunica al boss Giannusa che non c'è nessuno disposto a collaborare. Questo fa infuriare Giannusa, che risponde: "Non c'è nessuno? Dì loro che se ne vadano (da Villa Sofia), devono andarsene tutti... restino a casa loro".

I PROFESSIONISTI. La borghesia palermitana viene nuovamente scossa da una sconcertante infiltrazione della mafia. L'ultima indagine condotta dalla polizia e dalla procura rivela che il notaio Sergio Tripodo avrebbe cercato i boss di Resuttana, gli eredi dell'influente famiglia Madonia, per ottenere il libero accesso a diversi appartamenti da lui appena acquistati. Il commercialista Giuseppe Mesia, d'altra parte, si sarebbe addirittura recato a Milano per abbracciare il boss Salvatore Genova nel giorno della sua scarcerazione. Mesia è ora accusato di essere la mente imprenditoriale del clan. L'imprenditore Giovanni Quartararo, proprietario di una catena di negozi di calzature, è invece accusato di aver organizzato incontri riservati per conto dei mafiosi, mentre Benedetto Alerio, noto imprenditore della città, gestisce le pollerie Savoca ed è considerato un membro del clan. Anche l'imprenditore edile Agostino Affatigato avrebbe agito come ambasciatore dei riscossori del pizzo nei confronti dei suoi colleghi.

La lettura delle testimonianze degli insospettabili rivela la profonda corruzione all'interno di una parte della borghesia palermitana. "Borghesia mafiosa", come la definisce il questore Leopoldo Laricchia, che non ha esitato a mettere a disposizione le proprie competenze a vantaggio di Cosa Nostra.

Durante una conversazione sulle pratiche per la compravendita del bar Gelato 2 in via De Gasperi, il commercialista Mesia chiede al boss Genova il motivo per cui sta richiedendo il suo aiuto: "Perché ti sto chiedendo... così, tanto per...? Perché non mi sono mosso, perché non ci sono andato? Perché, se non parliamo, non posso fare nulla". È stato il boss a fissare il prezzo di vendita a 75.000 euro, e ha ricordato a Mesia che prima di poter procedere con l'acquisto, avrebbe dovuto "riscuotere il contributo destinato alla cassa della famiglia mafiosa", come affermano i magistrati. L'interesse per l'acquisto era del mafioso Michele Micalizzi di San Lorenzo. "Siamo due colonie", diceva il commercialista.

Mesia svolgeva un ruolo segreto da intermediario tra i boss Genova e Micalizzi. Secondo il giudice Pilato, "il ruolo di Mesia non si è limitato alla gestione dell'affare Gelato 2, ma ha coinvolto l'intera conduzione del programma criminale di Cosa Nostra". Secondo la procura, Mesia curava la strategia di espansione delle attività economiche del clan nel settore della ristorazione, attraverso il controllo esercitato su diverse società. Mesia ha orchestrato l'espansione delle pollerie Savoca per conto del clan e si vantava di aver trasformato suo cugino Benedetto da un ragazzo incaricato di trasportare sacchi di farina in uno schiavo che lavorava tredici ore al giorno. "Con i soldi dei boss", sottolineava.

Il notaio Tripodo, d'altro canto, avrebbe inviato un gruppo di mafiosi per liberare quattro appartamenti che aveva acquistato nella zona del mercato ortofrutticolo. "C'è una sentenza del tribunale del 2017 che richiedeva la liberazione di tutti gli appartamenti", affermava il mafioso Gennusa. E poi aggiungeva: "Carissimo amico, lei si sta agitando, lo capisco, siamo qui amichevolmente se lei smette di agitarsi e creare situazioni...". Gli inquilini protestavano, dicendo che erano nati in quelle case, ma i boss Messina e Giannusa cercavano di convincerli a cedere. Messina diceva: "Non preoccupatevi, siamo bravi cristiani". E spiegava: "Chi ha acquistato l'edificio è come se fossi io". Giannusa ribadiva che loro non erano "cani selvaggi" e che aiutavano le persone che si comportavano bene. "C'è una sentenza del tribunale", ripeteva. Gli inquilini continuavano a protestare, chiedendo l'intervento delle forze dell'ordine e sostenendo che la legge avrebbe dovuto agire.

È evidente che l'unica legge rispettata in questa situazione è quella della mafia. Il notaio era chiamato "mio compare" e anche "bravo cristiano", perché non aveva cacciato via gli inquilini. Sembra che in passato il notaio avesse mandato anche il boss Genova. Gli inquilini si ribellavano, affermando che sarebbero dovuti intervenire i carabinieri e che la legge avrebbe dovuto fare il suo corso.