Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
09/08/2023 07:03:00

I giorni contati di Messina Denaro. Le sue parole

 

Quando, il 16 Gennaio scorso, è stato arrestato Matteo Messina Denaro, davanti ad una clinica dove doveva sottoporsi ad una seduta di chemioterapia, in tanti si sono interrogati sulle sue condizioni di salute. E qualcuno, vedendo la sua cartella clinica (quella intestata all'alias Andrea Bonafede) l'aveva anche detto: con un tumore così, si può campare massimo sei mesi, forse un anno. E così sta accadendo. Messina Denaro è grave, addirittura per i suoi difensori non può più stare in carcere. Di situazione grave ma non ancora irreversibile parlano invece i medici dell'ospedale de L'Aquila che lo hanno in cura, tra imponenti misure di sicurezza. 

In carcere Messina Denaro è stato sottoposto a periodici cicli di chemioterapia in una stanza-infermeria allestita appositamente all'interno del penitenziario abruzzese. Le condizioni del boss, secondo quanto si apprende, sarebbero state in lento ma costante peggioramento da diverse settimane. La malattia è al quarto stato di gravità e porta con sé delle complicazioni dal punto di vista urologico. Di recente aveva subito anche un piccolo intervento nell'ospedale San Salvatore de L'Aquila. Il suo legale aveva chiesto il ricovero in ospedale definendo le condizioni di Messina Denaro "non compatibili con il carcere duro" perché "deve essere assistito 24 ore al giorno".

Proprio nel giorno del ricovero è stato depositato il primo verbale dell'interrogatorio fatto a Messina Denaro il 13 febbraio scorso.

Nega di aver fatto parte di Cosa nostra, respinge le accuse di stragi e omicidi, specie quello del piccolo Giuseppe Di Matteo, il figlio del pentito rapito, strangolato e sciolto nell’acido dopo 25 mesi di prigionia, smentisce di aver mai trafficato in droga («ero benestante, mio padre faceva il mercante d’arte»), sostiene che la sua latitanza è terminata solo per colpa della malattia. In 70 pagine di interrogatorio Matteo Messina Denaro non concede nulla ai magistrati.

Nel lungo verbale il boss mette subito in chiaro: «Escludo di pentirmi». Accetta di rispondere alle domande, ammette solo quel che non può negare: il possesso della pistola, la corrispondenza con Bernardo Provenzano, la vita da primula rossa scelta per difendersi dallo Stato che lo accusa «ingiustamente» e poco altro. «La mia vita non è che è stata sedentaria, è stata una vita molto avventurosa, movimentata», dice. «Non sono uomo d’onore. Io mi sento uomo d’onore ma non come mafioso. Cosa nostra la conosco dai giornali», spiega.

«E lei non ha mai avuto a che fare Cosa nostra?», gli chiedono i magistrati. «Non lo so magari ci facevo affari e non sapevo che era Cosa nostra», risponde ma sottolinea: «Non ho commesso i reati di cui mi accusano: stragi e omicidi. Non c’entro nella maniera più assoluta. Poi mi possono accusare di qualsiasi cosa, io che ci posso fare». Nella lista dei crimini mai commessi c’è anche il traffico di droga. «Vivo bene di mio, di famiglia. Mio padre era un mercante d’arte», spiega parlando di Francesco Messina Denaro, padrino di Castelvetrano, morto da latitante e ritenuto uno dei fedelissimi dei corleonesi di Totò Riina. «Io sono appassionato di storia antica da Roma a salire – racconta il capomafia ai magistrati – poi mio padre era mercante d’arte e dove sto io c’è Selinunte».

E sulla cattura ha le idee chiare: «Non voglio fare il superuomo e nemmeno l’arrogante, voi mi avete preso per la mia malattia». Fin quando ha potuto, racconta, ha vissuto rinunciando alla tecnologia, sapendo che sarebbe stato un punto debole. Ma poi ha dovuto cedere.

Ai magistrati, per spiegare il cambio di passo sulla gestione della latitanza ha citato un proverbio ebraico: «se vuoi nascondere un albero piantalo in una foresta». «Ora che ho la malattia e non posso stare più fuori e debbo ritornare qua…», si è detto dopo aver scoperto di avere il tumore «allora – ha raccontato – mi metto a fare una vita da albero piantato in mezzo alla foresta, allora se voi dovete arrestare tutte le persone, che hanno avuto a che fare con me a Campobello, penso che dovete arrestare da due a tremila persone: di questo si tratta».

Su un punto il boss torna più volte: «Una cosa fatemela dire. Forse è la cosa a cui tengo di più. Io non sono un santo…ma con l’omicidio del bambino non c’entro», spiega negando di aver partecipato al delitto del piccolo Di Matteo rapito per indurre il padre a ritrattare le accuse. Per Messina Denaro il responsabile fu Giovanni Brusca. Ma tiene anche a precisare che in un ‘audio choc diffuso nei mesi scorsi «non volevo offendere il giudice Falcone, non mi interessa… Il punto qual è? Che io ce l’avevo con quella metodologia di commemorazione».