Cinzia ha 40 anni. Da un po’ di tempo non ci vede più tanto bene. La diagnosi: un tumore benigno, ai lobo frontali, da rimuovere. Cinzia si ricovera al Policlinico di Palermo. Il 17 Luglio viene operata: l’intervento è delicato, ma riesce. Dopo due giorni già viene trasferita dal reparto di neurochirurgia a quello ordinario. Però ha la febbre. Una febbre strana. Che sale troppo. Cinzia muore, tra le convulsioni, il 26 Luglio. Non è morta per il tumore, ma per un batterio, probabilmente preso in ospedale, nei giorni della canicola, con l’aria condizionata che neanche funzionava. Così sostengono i familiari in una denuncia.
E’ l’ennesimo scandalo che attraversa la sanità siciliana, che, dopo l’emergenza Covid, non trova pace.
L’ultimo rapporto CREA Sanità è impietoso. Nell’Isola, la spesa sanitaria pubblica pro capite standardizzata è superiore alla media nazionale, ma sempre più siciliani rinunciano alle cure a causa di problemi economici, lunghe distanze e liste d’attesa infinite. I valori di screening mammografico, colon rettale e cervicale sono molto bassi. Molti anziani sopra i 65 anni hanno una speranza di vita inferiore alla media nazionale. Pochi i disabili che beneficiano di assistenza domiciliare integrata con servizi sanitari e pochi i soggetti fragili che ricevono interventi di integrazione. Gli anziani sopra i 75 anni non autosufficienti hanno limitato accesso ai trattamenti sociosanitari residenziali. Anche l’accesso alle tecnologie innovative è stato valutato negativamente.
Un dato su tutti. Negli ultimi anni, secondo fonti dell’Assessorato Regionale alla Salute, sono saltati 40mila ricoveri, e cancellate più di 240mila visite specialistiche. Gente che aveva bisogno di cure, e non ha potuto averle. Altri che sono finiti nel dimenticatoio delle liste di attesa. Parte da qui l’ultima iniziativa della Regione. La soluzione è sempre la stessa: soldi, tanti soldi. Questa volta sono 48,5 milioni di euro, che il presidente Schifani ha annunciato di destinare al piano di abbattimento delle liste, per recuperare interventi e ricoveri e azzerare gli elenchi. Come? Ricorrendo ai privati. Metà dei fondi, infatti, verranno utilizzati per la sanità privata, con aziende e cliniche che quindi riceveranno un extra budget ricchissimo dalla Regione, ed in cambio faranno pure lo sconto sul loro tariffario: 10%. L’altra metà dei fondi, invece, sarà destinata al personale, per pagare gli straordinari, incentivare il raggiungimento degli obiettivi. Ma non sarà facile. Trovare personale motivato nella sanità pubblica siciliana oggi è pressochè impossibile. Ed è questo il secondo grande problema della sanità sull’Isola. Nonostante le alte spese, negli ospedali e nelle aziende mancano medici ed infermieri. Soprattutto nella sanità di emergenza.
Le scene di violenza nei Pronto soccorso, di persone esasperate per l’attesa, o di loro familiari, sono all’ordine del giorno. In uno dei casi più eclatanti, all’ospedale di Trapani, un paziente, stanco di aspettare, ha aggredito il personale con un coltello, costringendo medici ed infermieri a barricarsi in uno stanzino, in attesa della polizia. Da lì è partita la rivolta del personale, che ha chiesto la riattivazione, dopo anni, di un presidio permanente della polizia in ospedale.
E che dire del 118. Su duecentocinquantuno ambulanze, solo centootto prevedono il medico a bordo. Ma tra queste circa il venti per cento non hanno comunque il medico. Negli ospedali il tasso di scopertura del personale medico è del trenta per cento e ci sono reparti retti da un solo dottore.
Per attirare personale le aziende sanitarie le hanno tentate tutte: ricchi bonus, premi, benefit. Perché, paradossalmente, nella sanità siciliana manca tutto, tranne i soldi. L’ultima carta resta quella degli extracomunitari. Le Aziende Sanitarie Provinciali, infatti, hanno cominciato a chiamare anche i medici fuori dall’Unione europea.
Un modello virtuoso già c’è. A Mussomeli, provincia di Caltanissetta, sono i medici stranieri che stanno salvando la sanità pubblica. Il dottor Gabriel, cinquantuno anni, geriatra, si è trasferito con la moglie e quattro figli. La dottoressa Laura Lator, è la prima chirurga argentina assunta da un ospedale pubblico. Ha trentasette anni. È specializzata in gastroenterologia e patologie del cancro al colon. È mamma di due bambini. I suoi figli frequentano già l’asilo di Mussomeli, il marito, insegnante di Educazione fisica, ha trovato lavoro come istruttore di padel. Grazie a lei può riaprire il reparto di chirurgia dell’ospedale di Mussomeli, perché era rimasto solo il primario. Oggi nell’ospedale di Mussomeli lavorano quattro chirurghi, due medici in Lungodegenza e Medicina interna, e due ortopedici..
Da Mussomeli l’esperimento dei “camici senza frontiere” si estende adesso a macchia di leopardo in tutta la Sicilia. A Bronte, vicino Catania, dove si è arrivati alla chiusura del Punto nascita per l’assenza di ginecologi, acuita anche a seguito delle dimissioni di cinque dirigenti medici di ginecologia. Ecco dunque che l’azienda sanitaria ha emanato un avviso pubblico “riservato a personale medico con qualifica professionale conseguita all’estero, titolare di permesso di soggiorno”.
Rimane poi il terzo problema: le strutture. Lì la politica siciliana si è fatta male da sola. Il faraonico piano di investimenti annunciato durante l’emergenza Covid per costruire nuovi ospedali e centri di eccellenza, si è arenato in un buco nero dove non si vede via d’uscita. Il simbolo è il padiglione per il Covid che doveva sorgere, in piena pandemia, due anni fa, nel 2021, a Marsala. Un centro di eccellenza regionale che doveva essere pronto per Maggio di quell’anno. L’investimento iniziale doveva essere di 7,4 milioni di euro, saliti a 8,6, fino all’annuncio di qualche giorno fa: servono altri 17 milioni di euro. Per 16 posti letto. Non è l’unica struttura ferma al palo: le fanno compagnia 24 progetti del “potenziamento della rete ospedaliera” che la Regione Siciliana non riesce a portare a termine.
Secondo il piano approvato dal governo nazionale nel 2020 in Sicilia, entro il 2022, ci dovevano essere 571 nuovi posti letto in terapia intensiva e 29 pronto soccorso. L’obiettivo era farsi trovare pronti alla terza ondata di Covid. Ma la pandemia è finita e i reparti che dovevano fronteggiare l’avanzata del Covid restano solo sulla carta.