Secondo Matteo Messina Denaro, il dottor Alfonso Tumbarello che, tra ricette e impegnative per visite ed esami, ha firmato per lui 137 richieste, non sapeva di avere a che fare davvero con lui.
“Questo non sa niente. E le spiego come sono andate le cose”, dice il boss al procuratore Maurizio De Lucia e all’aggiunto Paolo Guido, durante il primo interrogatorio del 13 febbraio scorso.
Afferma di non conoscerlo, “però se lo incontravo in strada, a Campobello, sapevo che era lui, dove aveva lo studio, la macchina che aveva, bene o male… il paese è piccolo”.
Poi racconta che non si sarebbe ma rivolto a quel medico, perché era molto intimo con Vaccarino e non gli avrebbe mai chiesto alcun favore, manifestando la propria identità.
Insomma, il ragionamento del boss si fonda sul ruolo dell’altro Andrea Bonafede: il cugino del suo alias. Questa terza persona si sarebbe resa necessaria perché ad un certo punto, dopo l’operazione per rimuovere il tumore al colon, il medico avrebbe potuto voler dare un’occhiata alla ferita. Ecco perché al Bonafede che gli aveva prestato l’identità, sarebbe venuta un’idea: “Dice – riporta sempre Messina Denaro – ‘Ho un mio cugino, ci mandiamo a lui’”.
All’omonimo cugino, Andrea Bonafede avrebbe detto di avere un tumore, ma che non voleva farlo sapere alla propria famiglia. Stessa balla rifilata anche a Tumbarello. E’ così che il boss la racconta ai pm: “Ci disse: ‘Dottò, a mio cognato ed a mia sorella (anche loro suoi pazienti, ndr) – perché la mamma no, era anziana – ‘… non deve dire niente di questa malattia. Io sono a Palermo, gli mando a mio cugino’. Ed inizia… il cugino, ogni volta che andava per la ricetta, la dava a lui, dice, ‘… così almeno lo conosci’, dicevo, ‘No…’ io a lui lo conosco, perché… cioè lo conosco come Tumbarello, se lo incontravo, sapevo che era lui. Ora vi porto un… se il Tumbarello avesse saputo di me, c’era bisogno di una terza persona, che era il cugino? Punto interrogativo, cioè non ha logica, cioè se il Tumbarello sapeva che non era operato, che motivo aveva l’Andrea Bonafede di inventarsi la terza persona, giusto?”.
Ad un certo punto però la strada di Matteo Messina Denaro sfiora quella di sua nipote, che fa la farmacista all’ospedale di Trapani. Si tratta della figlia di suo fratello Salvatore. E dato che il capomafia di Castelvetrano, prima di andare a La Maddalena, fece un mese a Trapani, dice ai pm:
“Non avendo rapporti lei a me non mi poteva mai conoscere, perché quando io me ne andai, lei aveva 8 anni, però poteva dire: ‘Ma quello chi è? Mio padre?’, perché la fisionomia è molto… mi spiego che voglio dire? Quindi me ne sono andato appena ho capito che era là, sennò restavo a Trapani, se non c’era questo problema di questa ragazza, che non abbiamo completamente rapporti, quindi non…”.
In pratica Matteo Messina Denaro dice ai procuratori che la sua faccia è molto somigliante a quella del fratello Salvatore. Tant’è che la nipote avrebbe quasi potuto scambiarlo per il padre.
Perché questa precisazione non richiesta? Nessuno gli aveva chiesto del periodo di frequenza all’ospedale di Trapani. Certo, come dice lui stesso, “il paese è piccolo”. E dato che, come ha sottolineato in un altro momento dell’interrogatorio, se dovessero arrestare tutti quelli che hanno avuto a che fare con lui a Campobello, dovrebbero mettere dentro da due a tremila persone, ci si chiede se qualcuno che magari conosceva il fratello Salvatore, avrebbe potuto fare due più due. Anzi uno più uno. E se la nipote, avrebbe comunque potuto riconoscerlo (o scambiarlo per suo padre) al supermercato, per la strada o in qualsiasi altra occasione si fosse presentata in un “paese piccolo”. E’ come se, per il boss, il paese si ingrandisse o si rimpicciolisse a convenienza.
Per la Procura però, Tumbarello avrebbe dato atto di aver eseguito personalmente un’anamnesi accurata del paziente ed una relativa valutazione clinica il 5 novembre del 2020, formando una scheda falsa a nome di Andrea Bonafede.
Ma chi avrebbe fatto la colonscopia al boss?
“Se non ricordo male, Bavetta si chiamava, a Marsala, però so solo il cognome”, dice Messina Denaro durante l’interrogatorio. Dopodiché “Siccome sapevo che c’era uno bravo a Mazara, Urso giacomo, non mi ricordo, andai da lui. Lui vide la colonscopia, dice: ‘Ma qua dobbiamo operare immediatamente, perché sennò non si va più da nessuna parte’”.
Il boss però è perentorio col medico: non vuole il sacchetto.
“… Io sacchetto non ne voglio messo: mi cuce e la chiudiamo là, perché io col sacchetto non ci voglio vivere, preferisco morire e non vivere col sacchetto, non c’è più dignità”.
Non sarà necessario. Alla fine gli tolgono 30 centimetri di intestino.
La “dignità” è salva.
Credono di salvarla ad Andrea Bonafede, invece era Matteo Messina Denaro.
Egidio Morici