La domanda è una e continui a pensarci per tutte le otto puntate delle serie ispirata al romanzo di Stefania Auci: perché I leoni di Sicilia non hanno la stessa forza di una serie cult come Downton Abbey? Ovvero, perché l’Ottocento siciliano messo sullo schermo da Paolo Genovese non riesce a conquistarci con una storia e una famiglia di analoga forza narrativa, tra sfarzo e miseria, grandi amori e abominevoli affari?
Le risposte potrebbero essere diverse. Proviamo solo a riassumerle in tre occasioni mancate. La prima è sicuramente il peccato più grave: la totale assenza di ironia. I leoni di Sicilia manca totalmente di questa profonda intelligenza, che riconosciamo nella sagacia di battute fulminanti e detti sapienziali, nella postura e nell’eloquio delle grandi figure della Sicilia dell’Ottocento: basterebbe sfogliare Il Gattopardo, antimodello della famiglia Florio, per accorgersi delle modalità di dialogo che segnavano le stanze istoriate dei grandi palazzi isolani. Nei Leoni tutti, che siano nobili o borghesi, servi o imprenditori, sono appesantiti da una gravità costante, la maledizione di essere «nuddro mmiscato cu nenti», e questa rigidità spezza qualsiasi ritmo narrativo: nessuna idea sferzante, nessun modo obliquo per leggere il mondo. Sembra che i Florio, se sono arrivati a essere «i veri re della Sicilia», lo devono solo alla loro cocciutaggine. E non a una forma straordinaria di intelligenza, appunto, quella che ti permette di capire l’altro e di abbatterlo con una sola parola. Chiudo questo punto, a tal proposito, ricordando Leonardo Sciascia e la sua prefazione al volume L’età dei Florio, dove insiste proprio sulla dialettica spicciola, e stigmatizza lo splendore della famiglia di origini bagnarote.
Il secondo difetto, nato sicuramente dal primo, è la stereotipia. L’assenza di ironia, e la rigidità che crea, non permette di mettere sulla scena personaggi complessi, ma solo macchiette: allora avremo Vincenzo Florio che può fare a gare di avidità con il personaggio di Ebenezer Scrooge di Charles Dickens, ma non avrà alcun fantasma a salvarlo dall’inferno che si è costruito; Giulia Florio che incarna l’idea di bene e di modernità, totalmente a scapito della figura di suo marito, Vincenzo, che passa soltanto come un mercante squallido e opportunista (altro detto dispregiativo utilizzato è «pirocchio arrinisciuto»); Ignazio Florio, il figlio di Vincenzo, invece, è il rampollo che accetta il suo destino, che manca di coscienza, che decide di diventare il padre a costo di perdere l’amore. È una rassegna di luoghi comuni, indubbiamente rassicuranti, ma anche così noiosi, che è impossibile pensare che I leoni di Sicilia possa avere la stessa forza di un Orgoglio e pregiudizio o di un Downton Abbey siciliano. Se poi pensiamo a scena assurde come quella in cui Vincenzo insegue Giulia per i mercati, e finisce per prenderla di forza, portarla in una stalla e dirle: «Non riesco a resisterti»… Scadiamo nella soap opera americana, non di certo in una grande saga epica.
L’ultima nota è proprio una postilla. Miriam Leone (che recita le parti di Giulia Florio) ha dichiarato, in un articolo dell’Ansa, che finalmente questa dei Florio è «una storia siciliana senza mafia». Naturalmente, tutti noi speriamo che sia stata soltanto disattenzione, perché quella dei Florio non è una storia in cui la mafia è assente, e anche in questo è una storia molto siciliana. Sarebbe sufficiente, anche qui, leggere alcune pagine di Cosa nostra dello storico inglese John Dickie per farsene un’idea chiara. E ce ne siamo occupati anche noi su Tp24.
Ma ridurre tutto a uno stereotipo senza ironia ostacola la possibilità di indagare davvero la storia. E ci porta a raccontare una storia epica come quella della famiglia Florio come se fosse un Beautiful al gusto di marsala.
Marco Marino