La definitiva confisca, da parte della Cassazione, dei beni di Michele Licata (ristoranti, alberghi, auto, terreni, conti bancari e altro per un valore totale stimato intorno 127 milioni di euro) segna un punto fermo nella vicenda giudiziaria dell’imprenditore marsalese, per decenni leader in Sicilia occidentale nei settori ristorazione e alberghiero.
La seconda sezione penale della Suprema Corte (presidente Anna Petruzzellis) ha respinto il ricorso di Licata e dei suoi familiari avverso la sentenza della sezione Misure di prevenzione della Corte d’appello di Palermo, che, tranne che per alcuni beni della moglie (beni della Wine Resort di Vita Maria Abrignani), aveva sentenziato la confisca.
A difenderlo sono stati gli avvocati Carlo Ferracane e Salvatore Pino. Fu nella primavera del 2015 che scattò il primo sequestro. A porre i sigilli al suo impero economico fu la Guardia di finanza dopo avere scoperto una colossale evasione fiscale (indagini condotte dalla sezione di pg della Procura di Marsala e dal Comando provinciale di Trapani). Da allora, sono in amministrazione giudiziaria ristoranti e alberghi: Delfino, Delfino Beach hotel, il mega-complesso Baglio Basile (albergo e ristoranti) e l’agriturismo La Volpara.
Otto anni fa, il maxi-sequestro (oltre alle strutture, anche società, conti correnti, abitazioni, terreni, auto, etc.) fu la più imponente misura di prevenzione patrimoniale per “pericolosità fiscale” a livello nazionale. L’evasione fiscale contestata al “gruppo Licata” (Iva e tasse non pagate tra il 2006 e il 2013) è stata stimata da Procura (pm Alberto Di Pisa e Antonella Trainito) e Guardia di finanza in circa 6/7 milioni di euro, mentre i finanziamenti pubblici per la realizzazione di alberghi e ristoranti, secondo l’accusa “indebitamente” percepiti (ma poi, in appello, per il reato di truffa allo Stato è scattata la prescrizione) sarebbero ammontati a circa quattro milioni di euro. In primo grado, il 2 dicembre 2016, l’imprenditore è stato condannato dal gup del Tribunale di Marsala di Marsala Riccardo Alcamo a 4 anni, 5 mesi e 20 giorni di reclusione non solo per evasione fiscale, ma anche per truffa allo Stato e malversazione. Poi, nel luglio 2020, in secondo grado, con la prescrizione per truffa allo Stato e l’assoluzione per la malversazione (circa un milione e 800 mila euro che, secondo l’accusa, Licata aveva sottratto alle casse di una delle sue società, “Il Delfino”), la Corte d’appello rideterminò la pena in due anni, sei mesi e 20 giorni di carcere. Nel 2022 la Cassazione confermò i due anni e mezzo. In primo grado, con l’imprenditore erano imputate anche le figlie Clara Maria e Valentina Licata, titolari di alcune società del gruppo e imputate in concorso con il padre. Entrambe patteggiarono la pena. Infine, lo scorso gennaio, in un altro processo scaturito dallo stesso filone investigativo, la Corte d’appello ha confermato a Michele Licata la condanna a 5 anni di carcere che il 18 marzo 2021 il Tribunale di Marsala gli aveva inflitto per auto-riciclaggio.