Da un certo punto di vista, sembra una versione aggiornata e siciliana del mito della collettivizzazione delle repubbliche sovietiche. È il Comune di Roccella Valdemone, in provincia di Messina. Conta seicentocinquantasette anime. E la bellezza di duecentottantacinque beni immobili e terreni confiscati alla mafia e consegnati al Comune. In pratica, quasi un bene ogni due abitanti. La proprietà privata che diventa di proprietà della collettività, ossia dell’intera società. La cosa più vicina al comunismo che esista, se vogliamo.
Nel piccolo borgo, però, che si allunga tra le rovine del castello e la Madrice, non sanno che farsene di tutto questo ben di Dio. Anzi, per il Comune, duecentottantacinque beni da gestire sono un problema, una grande sciarada Roccella Valdemone ha il record italiano nella classifica degli enti pubblici che gestiscono beni confiscati, in rapporto con gli abitanti.
Piccola parentesi: ai tempi di Mani Pulite, sembra un secolo fa, uno dei magistrati più in vista, Piercamillo Davigo, nei suoi interventi pubblici, raccontava un aneddoto: una volta erano venuti degli americani, in visita al Palazzo di Giustizia, a Milano, per capire come funziona la lotta alla corruzione in Italia, e quando Davigo e i suoi colleghi erano arrivati al tema della prescrizione, i traduttori si erano confusi, perché non riuscivano a spiegare il concetto per gli americani, non sapevano proprio come dirglielo, che in Italia c’è un istituto del diritto per il quale dopo un tot di tempo la pena per un reato non si sconta più. Per Davigo era motivo di grande sconforto, questa eccezionalità italiana.
Quegli stessi traduttori, oggi, avrebbero (anzi, hanno) difficoltà a spiegare agli stranieri il concetto di «sequestro preventivo e confisca dei beni», perché anche questa è un’esclusiva italiana, è un’invenzione tutta nostra, e l’Italia è il Paese che per primo al mondo (grazie a un’intuizione del deputato Pio La Torre, che fu barbaramente assassinato anche per questo) toglie i beni ai mafiosi, le loro fonti di ricchezza, e li restituisce alla collettività. Pio La Torre aveva capito che l’attività di contrasto alla mafia deve colpire prioritariamente i patrimoni e gli interessi economici delle organizzazioni criminali, ma la vera innovazione rivoluzionaria di quella intuizione è stato il riutilizzo pubblico a fini sociali dei beni sequestrati e confiscati alle mafie, concretizzatosi con la legge n. 109/96.
Negli anni il fenomeno è cresciuto, ha creato distorsioni notevoli, come racconta la recente condanna definitiva del magistrato Silvana Saguto, che gestiva in maniera padronale alcuni beni sequestrati, e oggi sconta una pena per corruzione e concussione. Ma il suo non è un caso isolato. Sono stati diversi gli amministratori giudiziari condannati per aver rubato soldi dalle casse delle ditte sequestrate ai boss. Quattro ex amministratori di un’altra azienda sottoposta non al sequestro ma al controllo giudiziario, la Italgas, hanno presentato invece al Tribunale di Palermo una parcella da centoventi milioni di euro, per un solo anno di gestione.
La Corte Europea per i diritti dell’uomo sta invece esaminando il caso della famiglia Cavallotti. Sono quattro fratelli che finirono sotto processo per reati di mafia. Il reato di turbativa d’asta fu dichiarato prescritto, mentre arrivò un’assoluzione nel merito dall’accusa di concorso esterno in associazione mafiosa. Scattò ugualmente il sequestro dei beni. In sette anni, però, delle loro aziende sono rimaste le macerie: sotto l’amministrazione giudiziaria sono andati in malora, con danni per undici milioni di euro.
L’Italia ha anche un’Agenzia Nazionale dei Beni Confiscati, e le classifiche su sequestri e dintorni sono molto utili a capire cosa si muove nella lotta alla criminalità organizzata nel paese. In termini assoluti il Comune che ha più beni confiscati è Palermo, con millecinquecentocinquantotto. Sui primi dieci comuni, sei sono siciliani. La Regione ha da sola più un terzo dei beni per cento dei beni confiscati alle organizzazioni criminali di stampo mafioso.
La realtà dietro i numeri racconta però una storia molto diversa. Per la maggior parte si tratta di immobili e terreni in stato d’abbandono, per tanti motivi: perché i Comuni non hanno le risorse per gestirli, perché dal sequestro all’assegnazione passano talmente tanti anni che gli immobili si rovinano, oppure per una precisa volontà politica (in diversi casi, i beni sono formalmente sequestrati ma rimangono nella disponibilità dei proprietari).
Per non parlare delle aziende: nove aziende confiscate su dieci falliscono in breve tempo, principalmente perché gli amministratori nominati dai tribunali sono commercialisti e consulenti che hanno un approccio da curatori fallimentari, non certo da manager, e poi perché un’azienda che fa parte dell’economia mafiosa ha una sorta di doping; e quando rientra nella legalità, si scontra con la realtà del costo del lavoro, del rispetto delle scadenze fiscali, eccetera.
In un dossier, la Commissione Antimafia dell’Ars ha fatto una fotografia preoccupante: su settecentottanta aziende siciliane sottratte dallo Stato a Cosa nostra solo trentanove risultano attive. C’è di più: delle quattrocentocinquantanove imprese per cui è stato portato a compimento l’iter gestorio, nell’isola solo undici non sono state destinate alla liquidazione: nel dettaglio, nove sono state definitivamente vendute e due date in affitto.
Il mantra che si ripete spesso in Sicilia è che dai beni confiscati potrebbero nascere ricchezza e lavoro. Ed è vero, nei pochi casi in cui si è riusciti ad attivare un circuito virtuoso. Ma l’ultima mazzata adesso viene dalla riprogrammazione dei fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza del governo Meloni.
Un importante asset del Next Generation Eu era infatti destinato al recupero e alla valorizzazione di aziende e beni confiscati, ma le somme sono state azzerate nella recente rimodulazione fatta dal ministro Raffaele Fitto. Sono stati tagliati così ottantadue milioni di euro. A Caltanissetta, ad esempio, su un bene confiscato, doveva sorgere un Polo logistico ed espositivo dell’agroalimentare mediterraneo dal valore di otto milioni di euro. Cancellato. Così come il progetto di Ristrutturazione e riqualificazione di un immobile da destinare ad attività connesse all’agricoltura nel feudo Verbumcaudo a Polizzi Generosa, nel palermitano. Si tratta dei terreni confiscati negli anni Ottanta a Michele Greco, il “Papa” di Cosa nostra, grazie all’impegno diretto del magistrato Giovanni Falcone. Oggi il feudo è gestito da una cooperativa sociale.
C’era poi il recupero di un albergo in provincia di Trapani, una casa comunità per le donne vittime di violenza ad Agrigento, un progetto simile a Catania. A Messina era prevista la creazione, sempre in un terreno confiscato, di una grande area ludica e sportiva, così come in altri immobili a Ragusa e Siracusa dovevano sorgere degli asili nido. Tutto saltato.
Da parte sua, il presidente della Regione, Schifani, sostiene che ha avuto l’impegno dal governo Meloni che si troveranno i soldi in altro modo, ma in pochi ci credono. Sarà, ma sembra che, ancora una volta, le ragioni dello sviluppo legato alla legalità sono passate in secondo piano. Alla faccia di Pio La Torre. E a Roccella Valdemone, come nel resto della Sicilia, aspettano.