Palermo, 10 Dicembre 1969. Quel giorno al civico numero 108 di viale Lazio sarà scritta una delle (tante) pagine della storia di Cosa Nostra. Nel regolamento di conti per uccidere Michele Cavataio, il boss che dava fastidio a Cosa nostra, rimasero a terra cinque persone: il padrino dell’Acquasanta, soprannominato Il cobra come la sua arma preferita, che prima di di essere ucciso con la testa fracassata dal calcio di un fucile ha il tempo di finire Calogero Bagarella che faceva parte del commando che si intrufolò negli uffici negli uffici del costruttore Girolamo Moncada. Morirà anche l’imprenditore Francesco Tumminello, ma a pagare il prezzo più alto furono il ragioniere Salvatore Bevilacqua e il custode del cantiere, Giovanni Domè che quella sera aveva bussato alla porta della ditta per chiedere almeno un acconto delle paghe arretrate. Si trovò faccia a faccia con i killer che, nascosti dietro la divisa della Guardia di Finanza, aprirono il fuoco.
Erano armati fino ai denti, nessuno si sarebbe potuto salvare. Ce la farà, invece, Angelo, il figlio diciannovenne del costruttore edile, vivo per miracolo: si finse morto, sotto una scrivania. Il fratello, Filippo, aveva trovato riparo in uno sgabuzzino, dove si era nascosto. L’orologio aveva da poco segnato le 6.45 del pomeriggio.
Dopo aver ucciso tutti, la banda scappò via non prima di aver chiuso nel bagagliaio il corpo di Calogero Bagarella, fratello di Leoluca. Non sarà mai ritrovato.
Quell’episodio segnò Palermo, in un drammatico prima e dopo. Bernardo Provenzano e Totò Riina avevano firmato la strage di viale Lazio con Calogero Bagarella, Emanuele D’Agostino, Damiano Caruso e Gaetano Grado, unico in borghese perché, nel caso, non voleva lasciarci le penne vestito da sbirro. “Se devo morire non voglio morire con la divisa” disse quando aveva deciso di cantare. Prima di quella mattanza erano solo dei ‘sicari’ incaricati di sbarazzarsi del boss dell’Acquasanta, considerato troppo ingombrante, un uomo senza onore che, con le sue manie di grandezza, non aveva più rispettato quelle regole non scritte che avevano garantito la pace fino a quel momento. Lui, la mente della strage di Ciaculli, il 30 giugno 1963, doveva morire. E così fu, come deciso dalla Cupola. Da quel giorno i “corleonesi” iniziarono la loro scalata, la conquista di Palermo, disegnando le nuove sfere di competenza della famiglie mafiose.
A capo delle indagini per far luce sul crimine c’era Rocco Chinnici. Bisognerà aspettare il 1999 e il pentimento di Gaetano Grado, mafioso vecchio stampo diventato un collaboratore di giustizia per dare ai componenti del commando un volto e un nome. Le sue rivelazioni, che si aggiunsero a quelle di Tommaso Buscetta, Antonino Calderone e Francesco Di Carlo, portarono ad un nuovo processo, che si concluse il 28 aprile 2009, con la condanna all’ergastolo per Totò ‘u curtu e Binnu ‘u tratturi.
Nonostante non sia un caso rimasto irrisolto, parte della storia è ancora da scrivere. C’è il mistero del tesoro di Cavataio, uno dei mafiosi più influenti di Palermo che sembra essere scomparso nel nulla da quel giorno di dicembre. Come nessuno sa dire se Bernardo Provenzano sia riuscito a recuperato dal cadavere del Cobra il documento che cercava, l’organigramma mafioso disegnato dalla vittima, un foglio di carta che doveva essere un’assicurazione sulla vita. Qualche pezzo è stato trovato, strappato, nel cestino dell’ufficio. Sopra c’era qualche nome di «uomini d’onore», ma nulla più.
Due giorni dopo, le luci dei riflettori punteranno su Milano. Il nuovo orrore di cui parlare era la strage di piazza Fontana. Quella di viale Lazio, passò in secondo piano, derubricata ma mai dimenticata.