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17/01/2024 06:00:00

Matteo Messina Denaro, un anno dopo

 Ci svegliò da una sorta di torpore, scoprire che era vivo, e che era qui. Ci sorprese la semplicità del male, il suo essere tranquillamente tra noi. Da quel giorno sono cominciati otto mesi rock, duri, vissuti velocissimi, fino alla sua morte. Otto come gli ergastoli che avrebbe dovuto scontare. Un anno dopo il suo arresto, messi a posto i pezzi, in fila i fatti, ragionando con calma, mi sono accorto che, alla fine, c’era qualcosa che stonava nella cantata della cattura del boss stragista Matteo Messina Denaro. Poi l’ho capito, cos’è che mi inquietava. La mia barba.


Il problema è sempre quello: la vita, porca miseria, non procede in ordine e non ti avvisa. Quando le cose ti sbattono in faccia, nel bene e nel male, non sei quasi mai pronto. E così, dalle 9 e 30 circa del 16 Gennaio 2023, quando fu annunciata la cattura di Messina Denaro – latitante dal 1993 – mi sono trovato nel vortice del mio canonico quarto d’ora di celebrità, che in realtà è durato parecchi giorni. Decine di interviste per commentare l’arresto del boss e parlare del mio lavoro di questi anni, collegamenti video e dirette social con mezzo mondo per spiegare la mafia agli stranieri.


Il commento di mia moglie, quando mi vedeva in video, era sempre lo stesso: sei impresentabile. Avevo infatti una barba brutta e trascurata, la barba della pigrizia dei giorni di festa o delle ferie. E quindi ci sono questi miei video in rete dove ho un barbone hamish che mi invecchia e mi ingrossa e non è, in effetti, il massimo dell’eleganza.

A saperlo prima, che dal 16 Gennaio sarei stato chiamato in tv come esperto di mafia per commentare la notizia dell’anno, mi sarei rasato, avrei scelto il vestito buono, e chissà, mi sarei messo anche a dieta. Ma la vita non ti avvisa, dicevo, e io sono andato dal barbiere solo molti giorni dopo, quando ho avuto un po’ di respiro. No, non ero preparato, non lo sono mai. Nessuno era in effetti preparato alla notizia dell’arresto dell’anno. Ci hanno preso tutti in contropiede. Nessuno era preparato, tranne, a guardare bene oggi, una persona: Matteo Messina Denaro. Ecco cos’è che non quadra, un anno dopo, nel racconto frenetico di quell’impresa. In tutto il caos di quelle ore e di quei giorni, c’era una persona che sembrava quasi a suo agio. Proprio lui, il boss.


I suoi gesti, a vederli oggi, sembrano puliti, quasi coreografici. Si, è un ballerino che si muove con grande padronanza di gesti. Ostenta una sicurezza che non è frutto dell‘arroganza dell’ultimo padrino, come ha scritto più di uno. È invece la calma di chi sa come vanno le cose, come devono andare. Non so come spiegarlo in altre parole, ma, Matteo Messina Denaro è elegante, sembra fluttuare. Indossa un capo costoso, firmato, ben imbottito, è fresco di rasatura e di colonia, si muove a passi non affrettati. Neanche gli mettono le manette, sarebbe stata una sbavatura. Quando verrà portato in caserma, sarà messo a capotavola, ascolterà con attenzione le domande di rito che gli verranno poste, risponderà con cortesia.

Se quella tra Stato e mafia fosse una partita a pallone, saremmo davanti al gol partita, anzi, di più, al gol che decide il campionato. E allora, dato che ormai non c’è gol senza Var, cerchiamo anche noi di rivedere, con calma, le immagini del suo arresto.

Bisogna tenere presente che, i carabinieri che gli tendono la trappola, alla clinica “La Maddalena” a Palermo, di lui non sanno nulla. Un mese prima entrano a casa della sorella del boss, Rosalia, perché devono mettere delle nuove microspie (scopriremo dopo che la polizia aveva in mente la stessa operazione, dato che già era entrata in quella casa, ma è stata tagliata fuori).

Nel cercare un posto sicuro per le cimici, hanno l’idea, giunti nella camera da letto della donna (che vive sola, i suoi familiari sono in galera), di utilizzare il vano della gamba di una sedia in metallo. Sorpresa: tolto il tappo, trovano già qualcosa nel tubo. È un pizzino, arrotolato, scritto da Rosalia, con appunti su qualcuno che sta molto male, ha un tumore grave al colon e al fegato, è stato operato, deve sottoporsi a chemioterapia. I carabinieri fanno la foto al documento, rimettono tutto a posto. Se ne vanno. Quando tornano in caserma ci mettono poco a capire che il malato è Matteo Messina Denaro (la voce che non stesse bene girava da tempo).

Parte un’attività frenetica di incrocio di nomi e date per capire quando, dove e con che nome il boss si sia fatto curare. Per farla breve, in tutta Italia l’unico profilo che coincide è quello di un certo Andrea Bonafede, di Campobello di Mazara, che, non solo è da un’altra parte quando dovrebbe essere, in base ai registri, sotto i ferri, ma il 16 Gennaio 2023 deve tornare in clinica, a Palermo, per un nuovo ciclo di chemio. Gli investigatori capiscono pertanto che Andrea Bonafede è l’alias di Messina Denaro. Scatta così l’operazione. Come è finita, lo sappiamo. Ma bisogna considerare che nessuno sapeva come fosse fatto Messina Denaro.

Era invisibile (anche se sotto gli occhi di tutti …) da trenta anni. Era alto, basso, calvo, moro, si era rifatto i connotati, come qualcuno sosteneva? Un gigantesco boh. E infatti come viene preso? I carabinieri chiedono agli operatori della clinica se conoscono Andrea Bonafede. Qualcuno gli dice si, certo, è un signore molto gentile e cordiale con tutti. Chiedono che gli venga indicato dalle immagini delle videocamere di sicurezza all’ingresso della clinica. E da quel momento, sanno chi devono fermare. Lo cercano nei paraggi, lo trovano.

Analizziamo il momento alla moviola: quando lo bloccano, un carabiniere gli chiede, concitato: «Dimmi come ti chiami». E lui: «Matteo Messina Denaro». Ancora: «Come ti chiami». «L’ho detto: Matteo Messina Denaro». Analizziamo questa sequenza al VAR. Avrebbe potuto dire tante cose, il boss: sono Andrea Bonafede, voi chi siete, ma come si permette, giù le mani. Aveva con sé i documenti falsi. Poteva guadagnare tempo, non avevano titolo per fermarlo. L’unico modo per capire se era lui il boss sarebbe stato un complicato e non immediato esame del Dna. E invece si dichiara. È pronto. Lo sapeva. Dice il suo nome, ma in testa pensa: «Ce ne avete messo, di tempo». Da quel momento, sembra quasi che sia lui a prendere il controllo delle operazioni, a cominciare dal suo arresto senza manette. Ci mancava solo che si facesse trovare con il pigiama a righe e il beauty.

C’è stata una trattativa, allora, penseranno in tanti. Non l’hanno preso, si è consegnato. Ancora una volta l’indicibile compromesso tra Stato e mafia. No. Non abbiamo elementi per dirlo e non è giusto dirlo, perché tante persone hanno dato la vita, in questi trenta anni, per prendere il boss. A noi tocca, come sempre, sederci non tanto dalla parte del torto, ma di quella dell’osservatore, e mettere insieme i pezzi, raccontare gli elementi fuori posto. Che sono tanti.

Da un lato, l’esatta pulizia dei gesti del boss, dall’altro lato, ad esempio, Mario Mori. Hai visto che parli di Mori, allora c’è la trattativa, dirà qualcuno. No. Il generale ed ex capo del Ros ha scritto un libro, per raccontare successi e disgrazie della sua vita. Ad un certo punto parla anche dei grandi boss di mafia (lui è quello che ha preso Riina). E spiega, nel suo linguaggio un po’ così, che per prendere un latitante, il metodo è questo: . «L’uso coordinato delle tecnologie con i servizi di OCP, osservazione controllo e pedinamento, permette di individuare se non tutte, almeno le principali interazioni tra gli appartenenti al gruppo di criminalità organizzata oggetto d’interesse, consentendo di poter intervenire con vantaggi molto significativi per l’indagine nel suo complesso, così da escludere o confermare le risultanze ricavate da altre fonti quali le intercettazioni e le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia». Tradotto in italiano: se vuoi prendere un latitante, controlla le persone a lui vicine, i complici. E arrivi a lui.

Si lavora sui complici, poi il pesce viene a galla. Ecco, questo è l’unico caso in cui è avvenuto il contrario. Si è preso il boss, e poi sono scoperti i complici, tutti personaggi al di sotto di ogni sospetto, perché appartenenti ad una delle più radicate famiglie mafiose del Belice.

Un anno dopo, sull’arresto di Messina Denaro hanno fatto inchieste e reportage, racconti e libri, speciali in tv e inserti vari. Ed in effetti, la sensazione è quella: tutto troppo perfetto, nitido. Il pizzino nella gamba della sedia, ad esempio, diventa famosissimo, certo. Viene da chiedersi perchè la sorella Rosalia (una che stava sempre in guardia, e quando usciva da casa metteva dei segnali dietro la porta per capire se gli sbirri erano entrati in sua assenza …) tenesse una sorta di cartella clinica del fratello malato, in casa, con informazioni che comunque erano vecchie (gli appunti risalivano all’anno prima).

E non si dice poi, un’altra cosa. Che i pizzini ritrovati, quel famoso giorno, furono due. Uno era quello sulla salute del boss. L’altro era invece uno scritto di Messina Denaro, addirittura vecchio di dieci anni. Una lettera inviata alle sorelle, nel 2013, con un riassunto dei capisaldi del pensiero mafioso, con frasi tipo: «Essere incriminati di mafiosità lo ritengo un onore». E ancora. «Siamo stati perseguitati come fossimo canaglie, trattati come se non fossimo della razza umana, siamo diventati un’etnia da cancellare». Ancora: «Siamo figli di questa terra di Sicilia stanchi di essere sopraffatti da uno Stato, prima piemontese e poi romano, che non riconosciamo, siamo siciliani e tali volevamo restare. Hanno costruito una grande bugia per il popolo, noi il male loro il bene».

«Hanno affossato la nostra terra con questa bugia – insiste Messina Denaro –. Ogni volta che c’è un nuovo arresto si allarga l’albo degli uomini e delle donne che soffrono per questa terra, si entra a far parte di una comunità che dimostra di non lasciare passare l’insulto, l’infamia, l’oppressione, la violenza. Questo siamo, ed un giorno, ne sono convinto, tutto ciò ci sarà riconosciuto e la storia ci restituirà quello che ci hanno tolto in vita».

Certo, però, che strano. La sorella conserva insieme il biglietto imprudente che segnerà la fine della latitanza dell’amato fratello, e una sorta di vecchio manifesto, di dieci anni prima, che è un concentrato di gne gne mafioso. La sentenza di condanna e il discorso del condannato. Sembrano, a pensarci bene, i due lati di un disco. In uno c’è il lato pratico della vicenda, l’indizio spiccio per arrivare al boss. Nell’altro lato, invece, c’è il grande classico, il riferimento ideologico puro. Insomma, come si usava una volta: il singolo rock che spacca in classifica, da un lato e l’arrangiamento orchestrale dall’altro. E da quel giorno, la danza comincia. La porta è sguarnita, bisogna solo fare goal.

Giacomo Di Girolamo