E alla fine il vento di protesta, dopo aver attraversato le strade olandesi, francesi e tedesche, si è abbattuto anche in quelle siciliane.
In Sicilia, già da diversi giorni, numerosi presidi di agricoltori sono partiti spontaneamente dalle province di Trapani, Enna, Caltanissetta e Palermo, e hanno dato inizio ad un movimento di protesta che si sta espandendo in tutta la regione e nel resto del paese.
Sebbene le ragioni delle proteste degli agricoltori di tutta Europa differiscano nelle rivendicazioni, esse hanno una matrice comune: il sempre più insofferente divario tra le scelte prese a Bruxelles e le pratiche agricole messe in campo. Mentre le misure imposte dal Green Deal (la strategia di sostenibilità europea) hanno una loro ragionevolezza dal punto di vista ambientale, le ripercussioni di breve termine che si sono scatenate sugli operatori del settore possono apparire incomprensibili e del tutto insostenibili. Si va dal blocco di parte della produzione di grano e mais per il 2024, il possibile taglio dei sussidi al gasolio agricolo di cui si discuterà entro il 2026 -che aggraverebbe il bilancio di molte aziende, l’obbligo di mantenere incolta il 4% della superficie agricola e, infine, l’apertura nei confronti di cibi coltivati e insetti, considerati una fonte di proteine più sostenibile dell’attuale carne da allevamento.
Come ha dichiarato il direttore del sindacato agricolo francese FNSEA ad Euractiv, ciò che dovrebbe preoccupare non è il Green Deal in sé, che nasce da una necessaria e non più rinviabile transizione verde, quanto “le misure di ‘decrescita’ legate al comparto produttivo”. Infatti, se queste da un lato ci consentiranno di ridurre le emissioni e migliorare suoli e biodiversità, dall’altro ci costringono nel breve termine a contrarre la produzione e -di conseguenza- ad importare più materie prime da altri paesi, i cui standard ambientali potrebbero non essere allineati a quelli europei, dando così vita ad un controsenso inutile e dannoso, per noi e per l’ambiente.
Un altro punto cruciale della protesta è legato alla sacrosanta rivendicazione di un prezzo giusto per i prodotti agricoli. Non è una novità che gli agricoltori si trovano schiacciati, da un lato da standard produttivi sempre più difficili da mantenere e dall’altro da una forte pressione sui prezzi imposti dai grandi distributori. Le aziende agricole europee, che rappresentano l'88% dell’intera filiera agroalimentare, sono quelle che complessivamente guadagnano meno, pur generando il valore aggiunto più elevato (insieme alle aziende trasformatrici). Al contrario, distributori e GDO -che costituiscono solo il 9%- hanno il guadagno più elevato a fronte di un valore aggiunto più basso (Food Drink Europe, 2018). Eppure sono soprattutto queste ad esercitare un forte potere contrattuale che gioca a sfavore del comparto agricolo. C'è un’evidente ed ingiusta distorsione in un mercato con queste caratteristiche.
Se a questo si aggiunge un aumento dei costi di produzione e i sempre più frequenti cali produttivi, dovuti ad un clima divenuto ormai imprevedibile, ecco che la tempesta perfetta è servita.
Ma non è finita qui. Infatti, non è un caso che la protesta dell’agricoltura italiana parta proprio dalla Sicilia, una terra in forte sofferenza dal punto di vista economico, ambientale, infrastrutturale e sociale, in cui la Regione sembra non fare abbastanza. Fare impresa agricola alle condizioni dettate dall’UE può essere complicato per molte aziende, ma farlo in una terra in cui gran parte delle strade attraversate ogni giorno dagli agricoltori non è manutenuta, lo stato di dighe e sistemi di irrigazione non consente un uso efficiente della raccolta e della distribuzione dell’acqua -nel territorio italiano più colpito dalla desertificazione- e in cui ancora oggi si fatica a vedere una seria strategia di adattamento ai cambiamenti climatici, diventa una lotta per la sopravvivenza.
L’inevitabile conseguenza è la mancata attrattività del settore agricolo per i giovani siciliani, che comprensibilmente preferiscono concorsi pubblici o l’emigrazione verso nord, alimentando il fenomeno dello spopolamento, che verrebbe ulteriormente aggravato dall’introduzione dell’autonomia regionale differenziata, un altro tema su cui gli agricoltori si sono fatti sentire.
La vastità dei temi toccati dagli agricoltori siciliani rende questa protesta molto peculiare rispetto a tutte le altre che stanno avendo luogo nel resto d’Europa. La critica alle politiche europee sembra non essere il fine ultimo delle loro rivendicazioni, bensì l’elemento che ha dato il via ad un movimento che chiama a raccolta l’intera società civile, incanalando un malcontento diffuso in tutta l’isola. Con lo slogan “La Sicilia alza la voce”, gli agricoltori siciliani non parlano solo di agricoltura e non si rivolgono solo a Bruxelles: stanno invitando tutta l’isola a protestare per le generazioni future, perché riconoscono nel mantenimento della loro attività economica, una funzione sociale non solo legata alla produzione di cibo ma anche a quello che ormai la politica (nazionale e regionale) sembra aver dimenticato, ovvero il diritto dei giovani siciliani a restare nella loro terra.
Mariangela Figlia