In questi tre anni nordici, passati nella ridente città di Milano, la domanda che maggiormente mi hanno rivolto – meridionali e non – è sempre stata secca, spontanea e con una lieve punta di disgusto: «Ma come fai?».
La risposta, di contro, è stata cauta. Perché non vuoi dispiacere il tuo interlocutore proprio all’inizio della conversazione; perché hai paura di entrare in un gorgo infinito di giustificazioni, stereotipi e amari propositi per il futuro del Belpaese. Quindi, prendendo fiato e recuperando tutte le forze spirituali che mi trovo in corpo, con un filo di voce, azzardo: «A me veramente piace».
Ci pensavo negli ultimi giorni, in cui mi attardo a Milano un po’ di più. Solitamente, verso fine luglio, con l’ufficio che si svuota, si sente il richiamo della foresta, quello che ti porta ad affidarti a qualsiasi mezzo di terra e di aria per tornare alle sacre sponde, come direbbe Foscolo, dove il nostro corpo fanciulletto giacque. Agosto è sinonimo di Sicilia, c’è poco da fare.
Invece, sono i primi giorni di agosto e ancora niente. Vago in una città senza mare, senza pane e panelle, senza Cassaro. Eppure, magicamente, non sento nostalgia, un’impellente mancanza del ritorno, un impagabile desiderio di casa.
O meglio. Questo sì. Di casa, sì, ma di casa mia. Mi viene spesso in mente una battuta del fotografo e editore Enzo Sellerio, il quale, spesso interrogato su come si vivesse a Palermo, controbatteva sagacemente dicendo: «Io non vivo a Palermo. Io vivo a casa mia».
Che richiama, a sua volta, quell’ideale romantico del poeta tedesco Novalis: «Dove stiamo andando? Sempre verso casa». Ma sarà stata casuccia loro, quella più intima, più riparata dal mondo, quella davvero nostra (con atti di proprietà e tutto…).
Chissà perché abbiamo bisogno di sentirci accolti da uno spazio più grande del nostro stesso sguardo. Marsala, la Sicilia, il Meridione. Come facciamo ad abitarli davvero? A occuparcene sul serio, a prendercene cura?
Perché è bello vantarsi di vivere in Sicilia e non fare niente per essa. A casa nostra ci prendiamo cura dei nostri spazi, rimettiamo a posto i divani, laviamo i vetri, non sporchiamo a terra; perché non farlo, allora, con uno spazio che più largamente sentiamo «casa»?
Occuparci della cosa pubblica come se fosse cosa privata. Che grande rivoluzione sarebbe. Prima di tutto sentimentale, emotiva. E poi magari arriverebbe anche ad altro.
Sempre in questi giorni, mi è capitato di leggere alcuni versi delle Metamorfosi del poeta romano Ovidio, in particolare quelli dedicati ad Aretusa. La ninfa della fonte, nel quinto libro, racconta del suo rapporto con la Sicilia. Ne parla come della terra che l’ha salvata: la Grecia non era più un luogo sicuro per lei, viveva correndo da una parte all’altra, fino a quando, trasformandosi in un corso d’acqua, attraversa le profondità della terra e sorge sull’isola di Ortigia che la accoglie.
Ortigia, la Sicilia, la salva. Aretusa, da parte sua, le offre una delle fonti più belle del Mediterraneo.
Nelle Metamorfosi, Aretusa è grata alla Sicilia e per essa prega: «Straniera sono, in Sicilia; ma questa regione mi è più cara di ogni altra: qui io Aretusa ho ora la mia casa, questo è il mio paese: e tu salvalo, mitissima dea» (vv. 495-497).
Sarebbe bello, mi dico qui da Milano, assomigliare di più ad Aretusa.
Marco Marino