Informativa
Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy.
Se vuoi saperne di più negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie. I cookie ci aiutano a fornire i nostri servizi.
Utilizzando tali servizi, accetti l'utilizzo dei cookie. Cookie Policy   -   Chiudi
21/08/2024 06:00:00

Avere paura del silenzio

 A me piace leggere perché mi permette di osservare alcuni miei gesti quotidiani di cui non mi ero mai accorto. Provo a fare un esempio, citando l’ultimo libro che ho letto, che si intitola In ascolto del silenzio (Einaudi, 2024) e l’ha scritto lo psichiatra Eugenio Borgna.

Proprio all’inizio delle sue riflessioni, l’autore ci dona questa immagine: «Il silenzio è dentro di noi nella sua fragilità, ed è necessario farlo ogni volta riemergere. Non dovremmo mai lasciarci trascinare dalla impazienza e dalla fretta, dalla smania e dalla leggerezza di aggredire un silenzio, senza ricercarne le motivazioni». Aggredire un silenzio, scrive Borgna. In che modo, mi chiedo, si può aggredire un silenzio? Perché lo si vorrebbe ferire come si ferisce una persona? E da queste due sorge un’altra domanda, la più difficile: quante volte ho aggredito i miei silenzi?

Borgna dipinge il silenzio come un corpo fragile di cui prenderci cura. Che abita dentro di noi, ma che molto spesso ignoriamo. Peggio, lo dimentichiamo. Non lasciamo che ci parli. Lo nascondiamo.

Penso a tutte quelle volte in cui si è presentato discretamente alla mia porta. Io, piuttosto che aprirgli, ho preferito mettere le cuffiette e ascoltare un po’ di musica. Ho preferito fare una chiamata. Ho preferito scrollare Facebook, Instagram o TikTok. Ho preferito fare finta che non esistesse, che non mi potesse essere di alcun aiuto. E così l’ho aggredito, gli ho fatto del male.

Adesso, non fermamoci all’immagine. Perché poche righe dopo il nostro psichiatra ci pone di fronte al nodo cruciale: «Se non amiamo il silenzio è forse perché non vogliamo ascoltare quello che si agita nel nostro cuore, e rispondere alla voce che chiama dalle misteriose lontananze della nostra anima».

Cosa stanno cercando di dirci i silenzi che non amiamo e di cui magari abbiamo anche molta paura? È così difficile comprendere il linguaggio del silenzio?

Innanzitutto, bisognerebbe aprirgli, come si fa con qualsiasi ospite che bussa alla nostra porta. Accoglierlo, farlo accomodare. Ma questa apertura implica un’azione niente affatto scontata: pulire casa.

Se tutti i divani e le sedie sono occupati, se il tavolo è così pieno da non riuscire ad aggiungere un altro posto, se in giro per casa siamo invasi da scatole che affollano la nostra vita senza lasciarci respiro, come potremmo fare entrare il silenzio?

Quindi, prima ancora di aprirgli, bisogna fare pulizia. Togliere quello di cui possiamo fare a meno. Perché possa stare comodo. Ma anche perché, ecco, questo dettaglio è bene conoscerlo in anticipo: il silenzio non arriva mai da solo. Porte con sé ansie, angosce, lacrime, speranze, dolori, gioie, consapevolezze.

La consapevolezza maggiore che ci restituisce il silenzio, Borgna ne scrive che sublimemente, è la consapevolezza di avere un corpo, fortemente connesso alla nostra interiorità che, nel silenzio (e nella pulizia) delle tante parole della nostra quotidianità, finalmente si svela. E completa l’esperienza intima con noi stessi. Leggiamo sempre da In ascolto del silenzio: «Al linguaggio della parola si associa il linguaggio del corpo: il volto, gli sguardi, i gesti, il pianto, testimoniano di una vita interiore, che, nonostante il silenzio della parola, continua ad essere d’aiuto a chi lo chieda con il volto e con gli sguardi, con il pianto e con il sorriso. Il linguaggio del corpo mantiene (tenta, e cerca di, mantenere) un dialogo disperato con gli altri, con il mondo e con il modo di essere degli altri».

Ci sarebbero ancora tante cose da scrivere su questa bella raccolta di pensieri, ma chiudere qui trovo sia importante. Coltivare un buon rapporto con il nostro silenzio; ritrovare, grazie ad esso, un buon rapporto con il nostro corpo; saranno esperienze necessarie per aprirci agli altri di più, meglio, con più intensità.

Marco Marino