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26/11/2024 06:00:00

Ma è vero che il governo "non fa respirare" la mafia? 

 «I can’t breathe», ripeté per venti volte, prima di morire soffocato, George Floyd, l’uomo afroamericano di quarantasei anni che il 25 maggio 2020 perse la vita a Minneapolis, negli Stati Uniti, dopo quasi nove infiniti minuti di agonia, strozzato dalla pressione esercitata sul suo collo dal ginocchio di un agente di polizia, mentre altri tre suoi colleghi assistevano alla violenza. Il video che mostrava la sua agonia fece esplodere la rabbia in decine di città americane e in tutto il mondo, sollevando un’ondata di indignazione e rabbia collettiva per il comportamento brutale della polizia.


E chissà, con il senno di poi, i quattro poliziotti condannati per la morte di George Floyd avrebbero potuto usare le parole di Andrea Delmastro Delle Vedove, parlamentare di Fratelli d’Italia e sottosegretario del governo Meloni alla Giustizia (con delega al Dap, il Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria). In occasione della presentazione della nuova auto della Polizia Penitenziaria, che presenta una specie di cella all’interno per il trasporto dei detenuti, ha detto, con entusiasmo, che «l’idea di vedere sfilare questo potente mezzo, l’idea di far sapere ai cittadini chi sta dietro a quel vetro oscurato, come noi incalziamo chi sta dietro quel vetro oscurato, come noi non lasciamo respirare chi sta dietro quel vetro oscurato, è sicuramente per il sottoscritto un’intima gioia». Altro che «I can’t breathe» di Floyd.


Nella sua «intima gioia», al cospetto della supercar dei celerini, Delmastro dimentica che solo nell’ultimo anno in Italia settantasei detenuti si sono tolti la vita, secondo gli ultimi dati aggiornati del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale.

Finito nell’occhio del ciclone per queste sue parole, il sottosegretario è corso ai ripari, correggendo la frase: «Mi riferivo ai mafiosi. È a loro che non diamo respiro». Subito è stato spalleggiato dalla stessa premier, Giorgia Meloni che, incontrando i giornalisti dal Brasile, a margine del G20, ha aggiunto: «Delmastro ha detto che gode nel vedere non respirare la mafia. Se questo vi scandalizza ne prendo atto».

Interessante precisazione. Non bisogna fare respirare i mafiosi, dunque. Forse Delmastro non ha visto (o non si ricorda) le immagini dell’ultimo grande boss mafioso arrestato in Italia. Era il 16 gennaio 2023. Il governo Meloni era in carica da due mesi scarsi. Quel giorno venne arrestato a Palermo, dopo trent’anni di latitanza, il boss stragista Matteo Messina Denaro. Le immagini fecero il giro del mondo. Si trattò, infatti, nonostante la tensione e la concitazione, di un arresto quasi gentile. Nessuna manetta ai polsi, addirittura. Un carabiniere che lo riparava dalla pioggia mentre lo faceva accomodare nel Suv. Messina Denaro ringraziò pure gli operatori per i toni e i modi gentili. Giorgia Meloni si precipitò poche ore dopo a Palermo a congratularsi con i vertici dei Ros e della Procura per il grande successo, con tanto di foto ricordo. E non disse cose del tipo: «Ma perché l’avete fatto respirare?».

Che poi, se seguiamo tutto il percorso di Messina Denaro dall’arresto fino al giorno della sua morte, otto mesi dopo, non gli è mancato nulla. Un’immagine lo immortala già subito mentre, seduto a un tavolo, firma il verbale del suo arresto, con accanto una bottiglietta d’acqua gentilmente offerta dai Carabinieri. In carcere poi, nel regime del 41 bis, a L’Aquila, non gli mancheranno le cure, per il tumore devastante che lo affligge – quello sì, che gli levava il respiro, non certo lo Stato – con tanto di chemioterapia comoda a due passi dalla cella e di controllo costante di medici e infermieri per eventuali effetti collaterali. Gli ultimi incontri riservati con la figlia. Infine, un corteo funebre scortato e lunghissimo.


Certo, non sono mancate polemiche per questo trattamento nei confronti di uno dei criminali più spietati che l’Italia abbia mai conosciuto. Soprattutto, sono stati tanti i malati di tumore a protestare per la facilità dell’accesso alle cure di Messina Denaro, mentre un povero cristo, magari, si deve arrabattare tra aziende sanitarie, appuntamenti che saltano, infermieri scortesi. Così come non sono mancati i dietrologi che hanno ipotizzato in quell’arresto senza manette, così pulito e coreografico, l’odore di un’ennesima trattativa, una resa studiata a tavolino.

Non è così, hanno risposto nel tempo ufficiali dei Ros, magistrati, medici, e tutti quelli che hanno «gestito» Messina Denaro. «Noi siamo lo Stato. Abbiamo la forza del diritto, dalla nostra, che vale per tutti, anche per i mafiosi». La forza del diritto, e anche la forza della pietas, verrebbe da aggiungere. E quindi sì, anche i mafiosi devono respirare.

Qualche giorno fa a Trapani, la Procura ha arrestato undici poliziotti penitenziari. Altri quattordici sono stati sospesi dal servizio. Sono accusati a vario titolo e in concorso di tortura e abuso d’autorità contro detenuti del carcere Pietro Cerulli di Trapani, nonché di falso ideologico. In totale gli indagati sono quarantasei, quasi un poliziotto ogni quattro tra quelli in servizio presso la struttura.

Schiaffi, sputi, manganellate. Gli investigatori hanno scoperto un carcere dentro al carcere. Una zona franca dove tutto era possibile. Uomini spogliati e derisi. Uomini malmenati. E un sistema che copriva tutto. Che, alla bisogna, si voltava dall’altra parte, con finte relazioni di servizio, o accusando ingiustamente le vittime di essere a loro volta aggressori. Violenze fisiche e vessazioni ripetute nel tempo, eseguite in modo sistematico da un gruppo di agenti. Le vittime erano sottoposte a maltrattamenti continui in un contesto che, secondo gli inquirenti, era caratterizzato da un clima di impunità.

Tra i casi più gravi accertati, detenuti fatti spogliare e umiliati, scherniti anche in gruppo, e vittime colpite con lanci di acqua e urina. «È inconcepibile che chi riveste un ruolo istituzionale si renda protagonista di simili atti», sottolinea il procuratore di Trapani Gabriele Paci, qualificando molti episodi come veri e propri atti di tortura. Magari, per gli agenti coinvolti, si trattava invece di pura, semplice, intima gioia.