Pubblichiamo il testo della dichiarazione rilasciata dal giornalista Rino Giacalone, imputato a Trapani in un singolare processo per diffamazione nato da una querela della vedova del boss di mafia Mariano Agate.
È stata assente ogni volontà di colpire e diffamare una singola persona, come essere umano e come individuo; l’espressione, usata, la cui durezza nasce da un’indignazione morale che vuole interpretare e sollecitare quella collettiva, contiene piuttosto un giudizio storico e scaturisce da una riflessione sul fenomeno mafioso, una riflessione che si concretizza in un’immagine che, grazie a Peppino Impastato, non appartiene più al ricco campionario delle rabbiose e scomposte offese, ma fa ormai parte del patrimonio letterario dichiaratamente e coraggiosamente antimafioso e dell’immaginario collettivo della parte più consapevole della società siciliana e nazionale.
L’idea, espressa metaforicamente attraverso l’allusiva citazione di una famosa espressione di una vittima della mafia, è che la mafia, penetrando e diffondendosi nel tessuto sociale, sporca, insozza la società civile, che di essa deve dunque essere ripulita non solo attraverso l’azione giudiziaria, ma anche e soprattutto da una forte e diffusa coscienza civica, orientata e sollecitata anche da coraggiosi giornalisti e dagli indipendenti organi di stampa in cui essi trovano spazio e possono far sentire la loro voce.
Non c’è dunque, come si diceva, alcun intento offensivo nei confronti di una singola e specifica persona, ma una spassionata valutazione di quello che ha fatto, che ha rappresentato e che è stato in modo storicamente e giudiziariamente evidente: un “pezzo”, cioè una parte costitutiva e attiva, di una violenta e sanguinaria organizzazione criminale.
Il fatto che il mio articolo e le affermazioni in esso contenute siano state soggettivamente percepite come offensive da parte di un familiare può essere forse umanamente comprensibile, ma non può assolutamente essere ritenuto prevalente rispetto alla loro innegabile oggettività sul piano storico, oggettività consolidata e definitivamente sanzionata dalle sentenze della magistratura.
Appare evidente, anche se (ripeto) umanamente comprensibile, che la vera offesa dalla quale si vuole difendere l’ “onore” del defunto sia quella di essere stato un mafioso: un modo, forse involontario, forse “sentimentale”, ma comunque inaccettabile, di ribaltare la sentenza del tribunale della storia e dei tribunali dello Stato italiano.
Un altro punto mi pare debba essere sottolineato. Non si può nello stesso tempo, da un lato, lamentare il fatto che i comportamenti omertosi o persino gli atteggiamenti di semplice indifferenza e scarsa coscienza di fronte al fenomeno mafioso favoriscano oggettivamente gli affari della mafia, ne facilitino le azioni delittuosi e, in ogni caso, ostacolino l’azione investigativa e repressiva dello Stato, e, dall’altro, condannare chi, anche per etica professionale, ha il dovere di rivolgersi alla società civile, di scuoterla, di orientarla e indirizzarla correttamente nella direzione della legalità, del senso della legge, del rispetto delle istituzioni dello stato e dei cittadini onesti.
Noi tra pochi giorni saremo pronti come è giusto che sia a ricordare il giudice Paolo Borsellino, gli agenti della scorta, straziati dal tritolo mafioso che imbottiva un’auto in via d’Amelio a Palermo. Ebbene non possiamo dimenticare che il giorno in cui Paolo Borsellino decise di concorrere alla guida della Procura di Marsala lo fece con una precisa consapevolezza riferita al suo amico e collega Giovanni Falcone, frase finita scritta in libri e che non ha dimenticato di citare nessuno degli sceneggiatori dei film dedicati a Paolo Borsellino. Vado a Marsala perchè il porto di Mazara il crocevia dei traffici di droga che arrichiscono la mafia. E a Mazara c’era un capo assoluto, Mariano Agate.
Infine signor giudice mi permetta di leggere queste parole che non sono mie ma sempre del dott. Borsellino ma che sottoscrivo.
“Sono morti per noi e abbiamo un grosso debito verso di loro; questo debito dobbiamo pagarlo giosamente continuando la loro opera, rifiutando di trarre dal sistema mafioso anche i benefici che possiamo trarne, anche gli aiuti, le raccomandazioni, i posti di lavoro, facendo il nostro dovere; la lotta alla mafia, il primo problema da risolvere nella nostra terra bellissima e disgraziata, non doveva essere soltanto una distaccata opera di repressione ma un movimento culturale e morale che coinvolgesse tutti e specialmente le giovani generazioni, le più adatte a sentire subito la bellezza del fresco profumo di libertà che fa rifiutare il puzzo del compromesso morale, della indifferenza, della contiguità e quindi della complicità; ricordo la felicità di Falcone quando in un breve periodo di entusiasmo egli mi disse “La gente fa il tifo per noi”; e con ciò non intendeva riferirsi soltanto al conforto che l’appoggio morale della popolazione dà al lavoro del giudice, significava qualcosa di più, significava soprattutto che il nostro lavoro stava anche smuovendo le coscienze”.
Ecco signor giudice. Io svolgo questa mia attività da oltre 30 anni, non ho conosciuto molti boss mafiosi, Agate non l’ho mai incontrato, ma ho letto centinaia di pagine giudiziarie che lo hanno riguardato. Io svolgo la mia attività senza avere giurato come si fa per altre professioni, sulla Costituzione, ma quel giuramento di fedeltà è stato ed è e sarà sempre mio, intimamente mio, come se lo avessi fatto. Oggi l’informazione si è evoluta, ed è stata chiamata a essere anche testimone dell’impegno antimafia. Perchè l’informazione se si è evoluta lo ha fatto per servire la libertà, per contribuire all’elevamento culturale. Ma mi rendo conto che c’è chi, fuori da quest’aula di Tribunale, mischiando le carte vorrebbe metterla in riga, richiamarla all’ordine, mettendola a disposizione degli uomini che propagandano la morte fisica o sociale dei loro avversari. Ecco quella mia affermazione voleva testimoniare che per quanto mi riguarda questo mettersi in riga non ci potrà mai essere. Con estremo rispetto a chi oggi mi ha condotto da imputato in quest’aula dico che questa è la lezione che ho imparato, che ho imparato ascoltando miei colleghi più autorevoli certamente di me ma i cui nomi sono stampati nella storia del giornalismo italiano. Uno di questi si chiama Santo Della Volpe, presidente della Federazione Nazionale della Stampa. Oggi doveva essere con me in quest’aula, la morte improvvisa ci ha privato di un grande giornalista.
Rino Giacalone Trapani Palazzo di Giustizia 9 luglio 2015