Mafia: 30 anni fa a Palermo cominciò il maxi processo. Il 10 febbraio del 1986 i capi delle cosche finirono alla sbarra Con Falcone e Borsellino arrivò il primo duro colpo dello Stato.
In una intervista rilasciata a La Stampa, Pietro Grasso, presidente del Senato ed ex magistrato, ricorda quel periodo.
“Dobbiamo molto a tutti quei servitori dello Stato che hanno sacrificato le loro vite” nella battaglia contro la mafia – dice -. Per questo non smettero’ mai di insistere e di spronare la magistratura e gli apparati investigativi acercare la verita’. Anche se dovesse risultare scomoda”.
“E’ l’avvenimento che mi ha toccato e non mi ha piu’ lasciato – ricorda Grasso -. Fu una grande vittoria di tutta la societa’ civile, dello Stato, di quel pugno di magistrati eroici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino piu’ di tutti, che riuscirono in una impresa dai piu’ ritenuta impossibile per le difficolta’ insite nella sola idea di voler processare in blocco Cosa nostra e per il ritardo culturale che, fino a quel momento, aveva reso inadeguata la lotta alla mafia. Ma fu anche la vittoria del popolo siciliano che pote’ – per una volta – vedere alla sbarra personaggi di cui non si era potuto neppure pronunciare il nome.
Fu la fine della sovranita’ limitata delle Istituzioni nei confronti del malaffare”.
“A distanza di trent’anni – conclude il presidente del Senato – possiamo dire che senza quel successo saremmo un po’ meno liberi. Ho fatto un giuramento davanti ai corpi martoriati di Falcone e Borsellino. Ho promesso che non mi sarei mai fermato nella ricerca delle verita’ sulle dinamiche che hanno causato la loro fine. E credo che non tutto sia ancora stato chiarito. Rivendico il merito di aver portato alla luce, con il pentimento di Gaspare Spatuzza, una verita’ giudiziaria – sulle stragi di Capaci e via D’Amelio – diversa da quella che era stata data per certa fino a quel momento, e nuovi elementi sulle stragi ‘in continente’ a Firenze, Roma e Milano del 1993 quando la mafia cambio’ strategia e viro’ la sua violenza contro il patrimonio artistico, causando morti innocenti anche lontano dalla Sicilia”.
Franco Nicastro racconta l’anniversario per l’agenzia Ansa:
Trent’anni fa lo Stato decise di rispondere alla sfida sanguinosa e prepotente della mafia. Lo fece nel modo in cui lo avevano pensato i magistrati del pool di Antonino Caponnetto con Falcone e Borsellino: un processo, anzi un maxiprocesso, che metteva insieme i fatti, gli eccidi, i protagonisti della pagina più infame della storia recente della Sicilia. Era il processo dei grandi numeri, a cominciare dalla folla di 475 imputati (ma molti padrini erano ancora latitanti) portati nell’aula bunker dell’Ucciardone costruita in tempi rapidissimi per ospitare un evento di forte richiamo. Mediatico soprattutto. Il 10 febbraio 1986, in una mattinata fredda e piovosa, davanti a quella che qualcuno definì una moderna “Astronave” della giustizia, si ritrovarono centinaia di giornalisti, fotoreporter, cameramen di tutto il mondo. La corte era presieduta da Alfonso Giordano, giudice a latere Pietro Grasso che diventerà procuratore di Palermo, procuratore nazionale antimafia e infine presidente del Senato. L’accusa era sostenuta dai pm Giuseppe Ayala e Domenico Signorino. Nell’aula bunker furono portati alcuni personaggi storici della mafia: da Luciano Liggio, che con il solito sorriso beffardo si presentò con una tuta sportiva indossata sotto un giubbotto e il sigaro spento tra le dita, a Pippo Calò che sfoggiava tutta l’eleganza del padrino che aveva le chiavi del forziere di Cosa nostra. Michele Greco, il “papa” della mafia dall’espressione curiale, sarebbe stato di lì a poco arrestato nel covo di Caccamo dove trascorreva una tranquilla latitanza fra delitti, traffici criminali e letture della Bibbia. E tra gli imputati a piede libero anche i cugini Nino e Ignazio Salvo, i potenti esattori ammanigliati con la politica ormai avviati verso il tramonto. Nino sarebbe morto presto per un tumore; Ignazio sarebbe stato ucciso nei viali della sua villa al mare. Le accuse erano compendiate in una monumentale sentenza di rinvio a giudizio: in oltre 9 mila pagine descriveva la nuova struttura di Cosa nostra e il ruolo egemone dei corleonesi di Totò Riina e Bernardo Provenzano che si erano liberati dei gruppi tradizionali, decimandoli in una spietata guerra di mafia, e avevano organizzato la sistematica eliminazione di magistrati, politici, giornalisti, servitori dello Stato. La lista si sarebbe allungata con le stragi del 1992.
L’impianto del processo poggiava sulle dichiarazioni di Tommaso Buscetta che aveva descritto la struttura verticistica di Cosa nostra, le sue strategie, i retroscena della catena di sangue che solo nel periodo tra il 1981 e il 1983 provocò mille morti. “Prima di Buscetta – disse Giovanni Falcone – avevamo un’idea superficiale del fenomeno mafioso. Lui ci ha fornito numerosissime conferme sulla struttura, sulle tecniche di reclutamento, sulle funzioni di Cosa nostra. Ma soprattutto ci ha dato una visione globale del fenomeno mafioso, una chiave di lettura, un linguaggio, un codice”. Il dibattimento si celebrò in un clima di grande tensione. La difesa tentò di paralizzare il processo con cavilli procedurali, richiesta di lettura integrale di centinaia di migliaia di pagine, perfino con la ricusazione del presidente. Il momento più spettacolare fu il confronto tra Buscetta e Calò che si concluse per il boss con una disfatta. Il 16 dicembre 1987, dopo 349 udienze e 36 giorni di riunione in camera di consiglio, la corte emise la sentenza: 19 ergastoli, condanne per 2665 anni di reclusione. Per tutta la durata del processo la mafia aveva fatto tacere le armi. Ma, appena letta la sentenza, la tregua fu spezzata. Antonino Ciulla, uno degli imputati assolti e scarcerati, venne abbattuto mentre tornava a casa per festeggiare la ritrovata libertà.
L’impianto del processo fu confermato, condanne comprese, in appello e in Cassazione che il 30 gennaio 1992 scrisse l’ultima pagina di una sentenza storica. Ma proprio in quel momento si chiudeva la stagione del pool smembrato con la “bocciatura” di Falcone. Al giudice simbolo della lotta alla mafia il Csm preferì come capo dell’ufficio istruzione un anziano magistrato.
Di lì a poco Cosa nostra avrebbe servito la sua vendetta con le stragi di Capaci e via D’Amelio. Ma, come prevedeva Falcone, la partita non si sarebbe chiusa. Il maxiprocesso segnò infatti la tappa più importante della riscossa civile della Sicilia.