AMATRICE - Su corso Umberto ad Amatrice fra le macerie di una casa disfatta c’è una Bibbia. Aperta e impolverata. Mi avvicino. Vedo una pagina del libro di Ezechiele. La prima riga contiene il verbo morire, coniugato al futuro. Ma ieri mattina alle 3.38 ad Amatrice la morte è stata coniugata al presente. Le 3.38. Come le 3.32 dell’Aquila, poco più di sette anni fa. L’ora maledetta è scoccata di nuovo. Ha tuonato dalle viscere della terra e ha chiesto alla vita la sua percentuale di morte.
La mia casa in cemento armato, a Onna, a pochi chilometri dall’Aquila, ha cominciato a dondolare come fosse finita in mezzo all’oceano. Alle 3.38 sono sveglio. Le notti insonni ormai mi perseguitano da quel sei aprile 2009. Mi alzo dal letto. Questa volta non ho camerette in cui andare a cercare i miei ragazzi: Domenico e Maria Paola. Loro se ne sono andati travolti dalle macerie. Quel grido di mio figlio “papà, papà” risuona ancora nelle mie orecchie e batte sul cervello fino a sfinirlo. Io ero là, impotente. Come si è impotenti di fronte a una tragedia più grande di te.
Ieri mattina il primo pensiero è stato: è tornato. Il terremoto è tornato. Colpirà ancora forte. Sono quasi le 4 del mattino ma il telefono squilla come fosse mezzogiorno. Dal villaggio map di Onna dove ancora vive la gran parte dei sopravvissuti, si odono le voci concitate di chi si sente perseguitato dallo scossone orrendo. Mi chiamano dalla vicina Paganica: grande paura, ma stiamo tutti bene. A un certo punto leggo “Monti Reatini”. Il pensiero va subito a Pizzoli, Campotosto, Montereale. Contatto gli amici che nell’estate del 2009 mi fecero vedere le ferite sanguinanti dei loro paesi. A Campotosto c’è Assunta: qui tutti bene — mi dice — ma non riesco a contattare i miei conoscenti ad Amatrice. È chiaro, è lì l’Apocalisse. L’ora maledetta ha cambiato obiettivo ma non ha rinunciato al suo bottino di morte. Mi sento con i colleghi del Centro, stanno partendo. Vado pure io. Mi avvio sulla statale 17. Sono da poco passate le 5 del mattino eppure c’è movimento. Quando arrivo all’Aquila, in viale della Croce Rossa c’è traffico come nelle ore di punta. Gente vestita alla meglio, come scappata da un incubo, si affanna davanti a un bar per prendere un caffè o un cappuccino. Le facce sono sconvolte. È successo di nuovo. Come allora. E la paura riaffiora, prende allo stomaco, ti strappa la lacrima che pensavi di aver asciugato per sempre. Sfatata la favola di quelli che ti danno di gomito e dicono: adesso il terremoto all’Aquila tornerà fra trecento anni. No, è tornato, e tornerà. Mi vengono alla mente le parole di un amico professore della facoltà di ingegneria dell’Università dell’Aquila incontrato per caso due giorni fa: «Sono amareggiato, noi dovremmo ricostruire pensando al prossimo terremoto e invece stiamo mettendo solo delle pezze». Terribile. Ma forse vero.
Quando poco prima delle sette del mattino giungo ad Amatrice il primo sentimento è la rabbia. All’ingresso del paese c’è l’ospedale, sembra un castello di carte pronto a cedere al primo colpo di vento. In una zona altamente sismica nessuno ha pensato a mettere in sicurezza l’edificio. In questa Italia parolaia è l’ennesima beffa.
Arrivo nel centro storico di Amatrice e il colpo è forte. È come se guardassi il remake di un brutto film, quello del sei aprile 2009.Vedo occhi persi nel vuoto, persone vagare senza meta. Spunta da un angolo una barella. Il collega che è con me si informa e mi dice: è una bambina di 12-13 anni. I suoi sogni si sono fermati alle 3,38. Quelli di Maria Paola, la mia bambina quasi sedicenne, alle 3.32. La barella sembra uguale a quella di allora. Ma forse vaneggio o forse voglio azzerare questi sette anni passati da prigioniero del dolore. Non è giusto mi dico. Perché accade tutto ciò? Nessuno mi ha risposto finora e nessuno mi risponderà mai. Il filo rosso non perdona. È quello dove corre l’ora maledetta.
*L’autore è un giornalista del quotidiano “ Il Centro”