Ci sono cose che musicalmente vanno controcorrente. Come Eminem, che da bianco ha cantato l’hip hop ai maestri neri, Alborosie ha accettato la sfida di fare il soldato del reggae in trasferta, a casa di Bob Marley. Un bianco, italiano, ascoltato, ballato e applaudito (è l’unico ad aver vinto il premio Mobo, che incorona i migliori artisti della black music) dai padri fondatori di un genere che è come una religione. Chilometri di rasta gli sfiorano le caviglie. Alberto D’Ascola, 39 anni, siciliano, padre poliziotto e madre casalinga è diventato Alborosie. Vivere in Giamaica per lui non è stato un atto dovuto per fare la musica che da ragazzino fischiettava sotto la doccia nella sua casa di Marsala. «Ero stanco della vita che facevo, la musica cominciava a starmi stretta, così mi sono licenziato dagli italiani» racconta. Con duemila dollari e un biglietto aereo si è meritato una casa e uno studio sulle colline di Kingston. Dove a fatica arriva l’elettricità, ma le vibrazioni restano ottime. «Vivendo qui, non fai una cosa, la diventi».
Ora dopo 16 anni da giamaicano adottivo ha deciso di andare oltre. E regalarsi un disco da produttore. Una cosa che in Italia non fa nessuno. Una cosa sullo stile di Timbaland o David Guetta. «Ho sempre voluto fare un album compilation dove mi sarei occupato della dimensione artistica. Ho invitato amici vecchi e nuovi a cantare su basi fatte da me. Un lavoro complesso, non facile da proporre alle radio che oggi hanno logiche lontane dalle mie: pezzi con influenze hip-hop, dub». Così è nato «The Rockers». «Nel disco volevo caratteri più che ospiti: c’è Giuliano Sangiorgi, Elisa che è un’amica, Fedez a cui mi lega il passato nei centri sociali a Milano. C’è Jovanotti con cui ho rifatto “Il mondo”, brano dei miei esordi con i Reggae National Tickets. Ma anche i 99 Posse con cui ho registrato il mio primo disco, Nina Zilli e Caparezza che vengono a trovarmi in Giamaica». Amicizie a distanza: «Abbiamo fatto tutto grazie a Internet». Tra le collaborazioni, ci sono anche pilastri della scena alternativa nazionale come Africa Unite, Sud Sound System, Boomdabash, Vacca e Apres La Classe.
Un disco nato da e per la Giamaica, dato che parte del ricavato va in beneficienza a un’associazione locale. «Devolvo gli incassi delle vendite di “A piedi scalzi”, il singolo fatto con il leader dei Negramaro: un messaggio e far prendere coscienza di quanto differenze e diversità tra le persone rappresentino una ricchezza e non un limite o una negatività». Il titolo «The Rockers»? «Un omaggio all’Italia, dove siamo tutti un po’ rock, un po’ figli di Vasco Rossi, di una cultura elettrica». Alborosie torna poi alla sua vera anima. «Canto la mia spiritualità, il mio viaggio interiore. Vivo ogni concerto come una messa laica, come un pastore che predica. Quando ho finito però mi richiudo in casa. Nella mia umile esistenza. Non ho mai sognato di diventare il presidente degli Stati Uniti e nemmeno Michael Jackson». Albo vive quattro mesi in tour: il resto dell’anno, praticamente in pantofole. «Mi sveglio presto, vado a pescare, giro in macchina con mio figlio, che ora ha tre anni e sto con mia moglie che è giamaicana».
I suoi pezzi sono arrivati al numero 1 anche nella patria dei dreadlocks, è stato headliner ai grandi festival dell’estate. Il suo reggae viene rispettato dai maestri. Ha un manager e una band locale. «Il reggae oggi ha perso l’onda buona e positiva di Bob Marley e Peter Tosh. Tutta la musica è saccheggiata dalle tv e vive un periodo di crisi. Così il nostro è diventato un genere da collezione, non arriva più alle orecchie e al cuore della gente. Anche qui ormai i ragazzini ascoltano musica americana». Ma la Giamaica resta un Paese devoto al vangelo della musica. «Qui è un mezzo comunicativo, quasi fisico, in Italia è un sottofondo. Qui ballano tutti, cantano, anche in chiesa e ai funerali. Solo in Italia può diventare musicista chi non lo è. Io non sono mai cambiato, nemmeno la mia musica. Solo i capelli negli anni sono diventati un po’ più lunghi». E se Marley sentisse questa musica? «Qui sono molto patriottici, ma credo che una pacca sulla spalla me la darebbe. Anche se dovrei essere io a ringraziare lui: il reggae mi ha insegnato come essere una persona migliore».
Fonte: Corriere della Sera (clicca qui per l'articolo originale)