L’onta dello scioglimento del Comune, l’onta delle operazioni antimafia, l’onta delle trasmissioni televisive sul superboss latitante, l’onta della locale squadra di calcio che non ha i soldi per partecipare al campionato della serie D.
In questi giorni, l’unico antidoto all’onta sembra essere l’atleta castelvetranese Loreta Gulotta, che ha portato alto il nome della città vincendo, insieme alla sua squadra, il mondiale di sciabola a Lipsia.
Insomma, la scherma contro lo scherno.
Ma la stilettata più dolorosa continua ad essere la mancata cattura di Matteo Messina Denaro, che da tempo è ancora un asintoto. E’ quella curva che si avvicina sempre di più all’asse senza mai raggiungerlo. Gli arresti dei fiancheggiatori non si contano più, sono ormai una decina all’anno: imprenditori, insegnanti, impiegati, politici, pizzinari, picchiatori. Oltre ai parenti, che stanno arrestando uno dopo l’altro.
Lui però no. I numerosi, ormai troppi, anni di terra bruciata non sono ancora serviti a stanarlo. Pare che la sua voce non sia mai stata ascoltata da nessun investigatore. Sempre che sia ancora vivo, consenso sociale, coperture istituzionali e massoniche (ovviamente deviate) sarebbero alla base di questa infinita latitanza, che stride con i nuovi strumenti tecnologici potenzialmente in grado di accorciare i tempi dilatati del passato.
Ci sono domande che non hanno ancora avuto una risposta.
Come faceva Patrizia Messina Denaro a comunicare con il fratello latitante, senza che nessuno degli investigatori se ne fosse mai accorto?
La storia comincia nel 2011, quando l’ex re dei supermercati Giuseppe Grigoli, in carcere per mafia, aveva detto di essere stato vittima del sistema estorsivo di Matteo Messina Denaro, accusando il fratello Salvatore e i cognati Vincenzo Panicola e Filippo Guttadauro. In carcere, molti avevano sospettato un possibile pentimento. E siccome nell’ambiente carcerario i pentiti non godono di grande ammirazione, la cosa monta ed arriva al 2013, quando un gruppo di “appassionati” dissuasori aspettava solo un cenno per potergli dare una lezione. Il tentennamento scaturiva dal fatto che Grigoli aveva motivato quelle sue dichiarazioni con una sorta di autorizzazione concessa dallo stesso capomafia di Castelvetrano. Ecco perché il Panicola, cognato di Matteo Messina Denaro, durante una visita in carcere da parte della moglie Patrizia, le chiede di accertare presso il vertice come stessero le cose.
La richiesta è del 24 aprile 2013 e la risposta (in cui gli dice che Grigoli non era stato autorizzato a dire nulla, ma ciononostante non avrebbero dovuto torcergli un capello, se no sarebbe stato peggio, “una catastrofe”) arriva il 3 maggio successivo. Nove giorni! Un record.
Altro che pizzini che passano di mano in mano.
Come ha fatto a parlare col fratello latitante? L’ha incontrato? Gli ha parlato con un sistema informatico a prova di intercettazione? Mistero.
E gli altri? Insomma, i pizzini hanno un mittente ed un destinatario. Possibile che quando alla fine della “filiera” c’è Matteo Messina Denaro, non si riesca mai a beccarlo? Evidentemente sì. E non è soltanto una difficoltà da parte di inquirenti e magistratura. Non ci riescono nemmeno i servizi segreti, che ci avevano tentato quando a capo del Sisde c’era Mario Mori, ingaggiando Antonio Vaccarino (ex sindaco di Castelvetrano, condannato in passato per traffico di stupefacenti, ma prosciolto dall’accusa di mafia). Due anni di scambio epistolare per “convincerlo a costituirsi” non sono bastati. Nel 2007 il Sisde, che riceveva da Vaccarino (nome in codice Svetonio) le missive del boss (che invece si firmava Alessio), alla fine le invia alla magistratura e dopo un po’ finisce tutto: Messina Denaro capisce il tradimento. E non la prende bene. Anche perché dell’ex sindaco di Castelvetrano si fidava, visto che era in buoni rapporti col padre don Ciccio. Ecco perché gli invia una lettera scrivendogli di aver “buttato la sua famiglia in un inferno”, di far parte del suo testamento e che “in mia mancanza verrà qualcuno a riscuotere il credito che ho nei suoi confronti”.
Questa volta si firma “M. Messina Denaro”. Fine della corrispondenza tra Alessio e Svetonio.
Ma perché in due anni nessuno dei servizi segreti riesce a seguire i pizzini per arrivare al destinatario? Sono le stesse difficoltà che ha incontrato fino ad oggi la magistratura? Mistero.
Eppure un pizzinaro doc, che avrebbe potuto condurre al padrino di Castelvetrano c’era: Leo Sutera di Sambuca di Sicilia. Ci stavano addosso, anche qui da due anni, il procuratore capo di Palermo Francesco Messineo ed il procuratore aggiunto Teresa Principato. Nel maggio del 2012, la Principato stava monitorando i suoi spostamenti, dal momento che tra un po’ avrebbe dovuto incontrare proprio Matteo Messina Denaro. Ma dalla procura di Agrigento arriva a Messineo una richiesta di arresto ed ecco scattare l’operazione “Nuova Cupola”. Sutera va in carcere. Fine degli spostamenti e fine del monitoraggio.
E intanto Castelvetrano ha un componente della commissione parlamentare antimafia regionale, l’onorevole Giovanni Lo Sciuto che, a parte le sue frequentazioni passate con i Messina Denaro, non è che abbia mai eccelso in quanto a posizioni contro la mafia. La mafia al singolare, quella di Castelvetrano. Non le mafie,la criminalità, il malaffare, che vogliono dire tutto e niente.
Colpisce che da membro della commissione antimafia della Regione Siciliana, pochi giorni prima del commissariamento, abbia dichiarato: “Io non sono convinto che questo comune sarà commissariato. Sono fiducioso. Non penso che ci siano intrighi che possano colpire la nostra città”.
Colpiscono le sue parole dell’aprile 2014, quando su Santo Sacco, politico castelvetranese condannato per mafia a 12 anni proprio nel marzo precedente, aveva affermato:
“Io penso che questa città è stata tormentata negli ultimi tempi da tanti episodi. Sicuramente Santo Sacco lo conoscevo come consigliere provinciale e addirittura abita pure vicino a me. C’è ancora un processo in corso (il riferimento era al processo di Appello, dal momento che quello in primo grado si era appena concluso, ndr), speriamo che alla fine lui possa dimostrare la sua estraneità. Se non è così mi dispiace, per lui e per questa città”.
Lo Sciuto era in prima fila in un corteo di una manifestazione intitolata “Castelvetrano libera Castelvetrano”, per la legalità e la vicinanza ai lavoratori della Gruppo 6, rimasti senza lavoro dopo la fallimentare amministrazione giudiziaria in seguito alla confisca dell’azienda di Giuseppe Grigoli, il re dei supermercati condannato per mafia.
E da quella prima fila, alla domanda se non sarebbe bene che l’antimafia sociale prendesse le distanze anche dai comportamenti e non solo dalle sentenze, aveva risposto: “Ma sicuramente, si deve prendere le distanze da tutto, bisogna sapersi comportare. Ma, ripeto, è importante che… Noi siamo oggi qua per testimoniare che cosa? Che questa non è la città dei mafiosi, ma una città di persone per bene, che sono a qua a testimoniare con la loro presenza che questa città vuole andare avanti, vuole riscattarsi e vuole avere un percorso di legalità. Bisogna smetterla di parlare di questa città come la città dei mafiosi. E’ una città di persone per bene che vogliono lavorare onestamente”.
Era il 2014. Sacco era già stato condannato in primo grado. Nel luglio del 2015, Sacco viene condannato anche in Appello, seppur con una riduzione della pena da 12 anni a 8 anni e 7 mesi. E nel maggio del 2016 la condanna viene confermata anche dalla Cassazione. Insomma, un dispiacere. “Per lui e per questa città”. Una Castelvetrano aiutata a reagire di pancia all’etichetta di città mafiosa dalle stesse persone che, come l’onorevole Lo Sciuto, dovrebbero invece spiegare bene ai cittadini che cos’è la mafia, come si trasforma, come si infiltra nelle pubbliche amministrazioni.
Oggi Lo Sciuto, in piena coerenza col 2014, dice che la città è piegata dal “marchio mafia”. Una mafia che però, aggiunge, “non ha quelle pesanti propaggini che alcuni vorrebbero far apparire”.
Che sia il marchio, più che la mafia, ciò che si vorrebbe cancellare, era emerso con chiarezza perfino nel programma elettorale di un singolare candidato sindaco alle amministrative recentemente saltate a causa dello scioglimento del comune: Maurizio Abate. Al punto 14 del suo programma si leggeva chiaramente: “Cancellare il marchio ‘mafia’ che hanno dato a questo meraviglioso territorio pieno di risorse, con tantissima gente onesta che non ha nulla a che vedere con la criminalità”.
Ma chi? Chi sono questi nemici del territorio che dispensano etichette? I magistrati che arrestano decine di fiancheggiatori? I giornalisti che ne parlano? La Commissione Antimafia Nazionale? Mistero.
Intanto, sembra che a parlare contro la mafia dei Messina Denaro sia solo la famiglia del pentito Cimarosa, morto nel gennaio scorso.
Una famiglia che però sperimenta in questo senso una solitudine particolare. Perché da un lato ha la diffidenza di quei pochi che avanzano dubbi sulla genuinità della loro posizione. E dall’altro ha il disprezzo di una gran parte di compaesani che ancora oggi considera il pentito come un infame.
Egidio Morici