Nella sua tenuta alle porte di Castelvetrano hanno fatto capolino giornalisti da tutto il mondo. Dopo essersi persi nell’oliveto di tenuta Pignatelli, e ammaliati dai prestigiosi pezzi d’antiquariato custoditi in casa, le tv e i giornali esteri hanno raccontato Gianfranco Becchina come il mecenate che investì nell’olio d’oliva di Castelvetrano esportandolo in tutto il mondo.
Mentre la stampa canadese, svizzera, americana parlava di lui, di questo ricco mercante d’arte venuto dalla Svizzera, c’erano altri che raccontavano l’altra faccia di Becchina. C’erano i pentiti di Cosa nostra che lo piazzavano vicino a molti affari della famiglia di Castelvetrano, quella capeggiata da don Ciccio Messina Denaro e poi dal figlio Matteo, superlatitante.
Da 30 anni il nome di Gianfranco Becchina viene tirato in ballo da procure e pentiti. La scampa in molti processi, un po’ per insufficienza di prove, un po’ per prescrizione. Adesso, nei giorni scorsi, la Dia di Trapani ha messo sotto sequestro tutti i suoi beni, per svariati milioni di euro.
DICONO DI BECCHINA…
Tra i primi a parlare di Gianfranco Becchina, nei primissimi anni 90, ci sono due ex mafiosi d’eccezione come Rosario Spatola e Vincenzo Calcara. Il primo lo ritiene un “uomo d’onore” della famiglia di Castelvetrano. A Calcara non risulta, ma parlò di lui a proposito dei traffici di reperti archeologici che la mafia cominciò ad operare già molti anni prima. Per i giudici però le rivelazioni non erano abbastanza concrete. La prima indagine su Becchina si chiude così con l’archiviazione, ma gli inquirenti prendono nota per il futuro.
MERCANTE D’ARTE
E’ un uomo colto Becchina, amante e grande conoscitore d’arte, sin da giovanissimo. La sua prima avventura giudiziaria ha a che fare proprio con le opere d’arte. Nel 1964, appena 25enne, viene trovato in possesso, dalla Polizia di Bergamo, assieme ad un’altra persona, di materiale che si sospettava essere “anche solo in parte autentici o di grande valore archeologico”. Il giovane Becchina trasportava nel bagagliaio dell’auto vasi di terracotta con raffigurazioni classiche, una testa da donna in terracotta, ciotole e altri oggetti in terracotta, bronzi di guerrieri e altro. I due dichiaravano che si trattavano di oggetti comprati al mercato romano di Porta Portese e a Cagliari. Convocato dalla Questura bergamasca il sovrintendente alle Antichità di Milano aveva dichiarato che qualche pezzo potesse essere “di grande valore archeologico”. Ma dopo quel controllo non ci furono successive indagini. Le prime indagini sul conto di Becchina per detenzione illegale di reperti archeologici partono nel 1979.
Negli anni ‘70 Becchina si trasferisce da Castelvetrano in Svizzera. Prima lavora in un hotel, poi comincia a commerciare opere d’arte e crea anche una galleria assieme alla moglie a Basilea. Uno dei suoi capolavori di compravendita di opere risale agli anni ‘80, quando rifilò per 20 miliardi di lire al Getty Museum di Malibù una statua di dubbia provenienza e anche il Cratere di Assteas.
(il Cratere di Assteas)
Anche la mafia del Belice ha sempre avuto un debole per le opere d’arte e i reperti archeologici. Sin dagli anni 60, quando venne trafugato l’Efebo di Selinunte, la famiglia Messina Denaro ha coltivato l’interesse per le opere d’arte. Prima c’era don Ciccio Messina Denaro, patriarca di cosa nostra nel belicino, poi la passione è stata tramandata al figlio Matteo. “Non è solo questione di gusto, soprattutto di affari”, raccontò Giovanni Brusca. Matteo Messina Denaro a fine anni novanta voleva trafugare a tutti i costi il Satiro Danzante di Mazara del Vallo. Mariano Concetto , ex vigile urbano e uomo d’onore della famiglia di Marsala, raccontò che era tutto pronto. Lui era incaricato per i sopralluoghi, e c’erano 200 milioni di vecchie lire da spartire. Poi il colpo fallì.
(Il primo a sinistra Francesco Messina Denaro, a destra un giovanissimo Matteo Messina Denaro)
Nel 2001 Becchina è stato coinvolto in un'indagine della Procura di Roma, perché ritenuto a capo di un’organizzazione criminale dedita, da oltre un trentennio, al traffico internazionale di reperti archeologici, per la gran parte provenienti da scavi clandestini di siti italiani, esportati illegalmente in Svizzera per essere successivamente immessi nel mercato internazionale, anche grazie alla complicità dei direttori di importantissimi musei stranieri.
In cinque magazzini a Basilea erano custoditi migliaia di reperti archeologici risultati provenienti da furti, scavi clandestini e depredazioni di siti, oltre che un archivio con più di tredicimila documenti sui traffici. Le opere d'arte furono sequestrate, ma Becchina uscì indenne dal processo per prescrizione. Proprio a Basilea, in indagini degli anni ‘90, gli investigatori captarono dei contatti telefonici tra le utenze utilizzate da Matteo Messina Denaro e quella svizzera di Becchina. Nell’ambito di quelle stesse indagini venne sentito anche Giovanni Brusca che riferì di essere incaricato da Totò Riina di contattare Matteo Messina Denaro, quando, nei primi anni Novanta, si voleva procurare un importante reperto archeologico da barattare con lo Stato italiano per ottenere benefici carcerari. A dire di Brusca i trafficanti d’arte legati al padrino di Castelvetrano avrebbero avuto la loro base in Svizzera.
Giacomo Di Girolamo