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14/03/2018 06:47:00

Quella borsa piena di soldi fatta avere a Messina Denaro

 Una borsa piena di soldi, per Matteo Messina Denaro. E' l'elemento centrale dell'operazione antimafia che abbiamo raccontato ieri nei dettagli su Tp24.it (leggete qui) ed è anche l'ultimo segnale di una qualche forma di esistenza del fantasma di Castelvetrano.

Siamo nel 2012. E c'è una «borsa piena di soldi fatta avere da quello di Alcamo». Chi parla è Lorenzo Cimarosa. E' stato il primo (e finora unico) pentito della famiglia mafiosa di Messina Denaro.

Sapeva poche cose, perché il meccanismo di funzionamento della cosca impedisce ad ognuno di sapere più dello stretto necessario. Ma con le rivelazioni di Cimarosa, prima di morire per un tumore, la procura antimafia ha compiuto diverse operazioni, ottenendo tantissimi riscontri.

Come, appunto, il caso della borsa piena di soldi. "Quello di Alcamo" invece è Vito Nicastri, elettricista diventato in pochi anni uno dei più importanti imprenditori in Italia nel settore delle energie rinnovabili.

E' l'arresto più importante effettuato ieri, insieme al fratello, Roberto. E molti giornalisti parlano di un "insospettabile". Ma in realtà, Tp24.it è almeno dal 2012 che racconta quella "cosa grigia", quella zona di contiguità tra vecchia mafia e nuovi affari, che Nicastri rappresenta in pieno.  Nicastri ha messo su negli anni un impero di  43 società (molte delle quali oggi confiscati confiscate), che valgono un miliardo e 500 milioni di euro.

Cosa c'era in quella borsa piena di soldi? C'erano i guadagni di un grande vigneto che Nicastri aveva comprato a un’asta giudiziaria, un terreno degli
eredi dei cugini Salvo. Nicastri avrebbe consegnato al boss Michele Gucciardi, i passaggi successivi furono Cimarosa e poi Francesco Guttadauro,
il nipote prediletto del superlatitante. Da lì poi la borsa sarebbe arrivata a lui, magari per coprire i costi della latitanza. 

I soldi guadagnati altro non erano che la "sensalia", il costo dell'intermediazione, costo occulto, per l'aggiudicazione del terreno. Ed è un classico affare della mafia trapanese. Che però guardava anche a nuovi affari, come per esempio l’ultimo progetto - scoperto sempre in questa operazione - che puntava a realizzare un’innovativa piantagione di alberi di Paulownia. L’imprenditore boss Girolamo Scandariato aveva anche trovato i 22 ettari su cui realizzare l’affare, un grande appezzamento della famiglia D’Alì. A trattare i dettagli dell’affitto del terreno arrivò direttamente l’ex sottosegretario al ministero dell’Interno, già senatore di Forza Italia, Antonio D’Alì. I carabinieri hanno ripreso l'incontro: è il 5 Settembre 2014.

Ma i fratelli Antonio, Giacomo e Pietro D’Alì precisano che «nel 2014 è stato stipulato un contratto d’affitto relativo ai terreni di nostra madre con la società Paulownia sociel project rappresentata dall’amministratore unico Girolamo Culmone, noto esponente del Wwf. La trattativa — dicono i D’Alì — si è svolta con lo stesso e con i legali della società, senza alcun intermediario». Secondo gli investigatori, invece, Scadariato faceva proprio da intermediario. E perché un noto ambientalista come Culmone, che è stato direttore della riserva delle saline di Trapani e Paceco, tra l'altro, sceglie un boss come intermediario con i D'Alì?